Una sala gremita di gente è quanto non ti aspetti. Durante la settimana, parlare di open source in impresa a un convegno a Venezia può sembrare quasi una scommessa. E invece poi, quando ci vai a quel convegno, scopri che la sala è talmente piena da avere gente in piedi : neppure gli organizzatori si aspettavano un tale successo, tanto che alla fine le copie stampate dello studio attorno al quale ruota l’evento non basteranno per tutti. L’interesse per quello che l’open source può fare per le aziende (e non solo) è palpabile in Veneto. C’è solo da augurarsi che la cosa si allarghi presto anche al resto d’Italia (sempre che non l’abbia già fatto).
In un certo senso, lo studio portato a termine dai ricercatori TeDIS Alessandro De Rossi e Antonio Picerni è l’occasione per contarsi: quando venne varato, assieme a loro concordavamo sul fatto che poter finalmente comprendere quanto contasse davvero il software a sorgenti aperti in un contesto economico dove il profitto – che lo si voglia o meno – costituisce l’obiettivo primario, era una priorità. Finita la bolla del web 2.0, finita la moda dell’open source , oggi questo modello di sviluppo è meno presente sui media di quanto lo fosse appena un paio d’anni fa: questione di trend del mercato?
Alla luce di quanto fatto registrare nello studio del TeDIS, e alla luce della quantità di pubblico in sala, evidentemente le cose stanno in modo diverso. Il direttore della VIU , Stefano Micelli , durante i lavori è stato chiarissimo quando ha parlato di “intensità mediatica inferiore”, ma al contempo di “mercato solido e consistente”: oggi l’OSS non è più un fenomeno di costume o un fenomeno passeggero, ma si è trasformato in un vero e proprio modello di business che viene attuato da aziende piccole con fatturati piccoli e da aziende multinazionali che puntano ai pesci grossi costituiti dalle pubbliche amministrazioni.
Sempre secondo il professor Micelli, l’open source è in grado di innescare “una dinamica economica in grado di sostituire la filiera tradizionale”: si riferisce ovviamente alla possibilità di sviluppare – abbattendo i costi – un software in un ambiente vasto quanto la Rete, non strutturato, dove chiunque può interagire con il resto della comunità per offrire il proprio contributo e la propria esperienza. Chi ha fatto il grande passo, chi ha creduto e investito in questo cambiamento epocale, sta oggi ottenendo risultati quantomeno interessanti: lo studio TeDIS lo ha dimostrato. Il problema, semmai, è che non tutti hanno ancora compreso i vantaggi di un certo approccio al mercato del software e dei servizi.
Pensare che chiunque possa contribuire allo sviluppo di un software è impensabile: non tutti oggi sono in grado, né lo saranno in futuro, di mettere mano a un kernel per ricompilarlo o a un file make per variare quanto occorre a costruire una build personalizzata per la propria workstation. Però tutti possono pensare di contribuire, anche solo attraverso il feedback: è quanto già oggi accade con due dei principali successi dell’open source, vale a dire Firefox e OpenOffice . In un certo senso, l’open source abbatte pure il digital divide: coinvolge l’utente finale nella crescita della tecnologia che utilizza, lo rende più consapevole degli strumenti che ha a disposizione.
Se si vuole davvero che l’open source cessi di essere una ideologia e si trasformi in una realtà, anche imprenditoriale, occorre anche tenere un approccio quanto più laico possibile : esiste una differenza tra free software e open source, esisterà sempre, ma non bisogna per questo mettere in piedi vere e proprie guerre civili tra le parti chiamate in causa. Chi vuole mettere in piedi un business, fare soldi con l’open source, deve essere libero di farlo: che tragga vantaggi per sé è comprensibile nella cultura economica occidentale, e forse i vantaggi per la comunità ci saranno anche a prescindere dal suo approccio etico alle licenze. Uno dei punti che mi ha maggiormente colpito durante i lavori del convegno, e nelle chiacchiere con i relatori prima e dopo, è stata la lucidità che chi si occupa di questo settore ha nell’analizzare uno dei principali freni allo sviluppo economico dell’Italia: l’ammodernamento di cui necessita la pubblica amministrazione . Sarà l’aria del nord-est, eppure alcuni dei relatori venivano da sotto la cintura padana come il sottoscritto, ma tutti avevano le idee chiare sugli strumenti che ci sono oggi a disposizione, sulle risorse umane ed economiche in gioco, e su quello che si può e non si può fare per tentare di migliorare la situazione.
Non è un caso se la Regione Veneto ha varato una legge dal titolo Norme in materia di pluralismo informatico, diffusione del riuso e adozione di formati per documenti digitali aperti e standard nella società dell’informazione del Veneto : una regione che ha davanti a sé sfide importanti sul piano infrastrutturale, che ha davanti a sé una stagnazione economica dovuta in parte alla crisi mondiale e in parte alla concorrenza spietata che viene da est, cerca di dotarsi degli strumenti necessari per fare fronte a spese che devono essere tagliate e obiettivi che impongono sacrifici.
Quello di cui si parla sempre in TV e sui giornali, vale a dire la semplificazione dei procedimenti burocratici per migliorare la competitività, passa anche da qui: c’è bisogno di fare di più, in modo più semplice e con fondi che non sono infiniti, e quindi una regione si pone il problema e cerca una soluzione. Il riuso delle soluzioni già sviluppate , l’adozione del software open source nella PA sembrano fare al caso: dunque si mette nero su bianco in una legge regionale che “Al fine di favorire la partecipazione alla vita democratica e la fruibilità dei servizi pubblici” e per “la razionalizzazione della spesa pubblica e in considerazione delle positive ricadute sulla concorrenza e la trasparenza del mercato” opta per “la diffusione di formati aperti” e “l’uso di software libero”.
Anche in questo caso, comunque, occorre fare delle precisazioni. La legge dice “predilige” il software libero, non ne fa un requisito: si tratta di mantenere un approccio laico, come già detto, lo stesso che lo studio del TeDIS ha dimostrato ripagare maggiormente gli sforzi delle aziende coinvolte. L’OSS è uno strumento che si può usare per fare innovazione e per far crescere il tessuto economico locale, grazie anche all’utilizzo del capitale umano che cresce nelle università locali, ma le aziende e la PA devono sempre scegliere la soluzione che più si confà alle loro necessità , senza pregiudizi di sorta.
Com’è stato ribadito nel corso del convegno, il vecchio concetto di commerciale che si presenta con una tabella con i costi di licenza per postazione per il suo software è destinato a scomparire: il modello dei software più servizi si sta imponendo , tra gli altri lo applicano (almeno in parte) giganti come Microsoft, SUN e SAP. Di spazio per crescere in questa direzione ce n’è molto, anche per le aziende italiane purché si muovano subito. Di spazio per risparmiare, per le pubbliche amministrazioni che tengano conto dell’interoperabilità e del riuso, ce n’è altrettanto.
In Veneto sembrerebbe che l’abbiano compreso tutti, sia dentro le istituzioni che fuori, nelle imprese: occorre ora stabilire se lo stesso sia accaduto anche altrove in Italia o se, come già successo altre volte in passato, ci si troverà davanti a poche eccellenze e casi meno sfortunati di cui discutere, da mettere a confronto. Da sviscerare mentre il resto del mondo andrà avanti, e il divario tra le economie delle altre nazioni e quella italiana si sarà fatto ancora più marcato.
Luca Annunziata