Il senatore Charles Grassley aveva chiesto a Microsoft, a mezzo lettera, di dare la precedenza ai lavoratori dell’hi-tech americani rispetto a quelli temporaneamente ospiti degli USA (provvisti del cosiddetto “visto H-1B”), e dopo la breve risposta data al tempo, la corporation di Redmond ritorna sull’argomento spiegando nei dettagli il perché Grassley non abbia nulla da temere dal “pericolo” della riduzione di forza lavoro tecnologica made-in-USA.
Brad Smith, a capo della squadra legale di Microsoft, usa la stessa forma di comunicazione epistolare scelta dal senatore dello stato dell’Iowa, spedendogli una lettera che in sostanza dice come in realtà nulla cambia o cambierà nelle politiche di assunzione dell’azienda nei prossimi mesi o anni.
Nei punti chiave della lettera, Smith spiega che “gli impiegati H-1B hanno sempre contato per meno del 15% nella forza lavoro americana di Microsoft”, rappresentando dunque meno del livello previsto dalla legge sull’immigrazione utile a determinare se una società debba o meno trovarsi nello status di dipendenza da H-1B . Nonostante questo, continua Smith, “la capacità di fare nostre le migliori menti del mondo è sempre stata essenziale per il nostro successo”.
Le università americane continuano a rappresentare quanto di meglio ci possa essere per la formazione nell’IT , dice il consulente, ed è anche per questo che una parte preponderante delle lauree in scienze informatiche (40%) o titoli di dottorato (59%) vengono concessi a studenti ospiti su territorio americano, stando a una ricerca che ha preso in esame i dati risalenti al 2005.
La maggioranza dei lavoratori che fanno richiesta del visto H-1B vengono assunti “per posizioni chiave” all’interno di Microsoft, continua la lettera, e molti di costoro sono alla ricerca di uno status di cittadinanza americana di tipo permanente, ragion per cui, col tempo, non saranno più dipendenti dalla legislazione in materia divenendo cittadini a tutti gli effetti.
“Accorpando tutti questi fattori – dice Smith – non ci aspettiamo di vedere un cambiamento significativo nelle proporzioni di impiegati H-1B nella nostra forza lavoro in seguito alla riduzione di posti”. Tutto bene, dunque? Non per Grassley, il cui ufficio ha risposto dicendo che il senatore vuole maggiori dettagli sulle intenzioni di Redmond circa la protezione di posti di lavoro statunitensi e le pratiche societarie riguardo le assunzioni H-1B.
Microsoft, che H-1B o no ha intenzione di creare tra le 2.000 e le 3.000 nuove possibilità occupazionali grazie al focus sulla ricerca e la spesa di nove miliardi di dollari (1 soltanto quest’anno), non è a ogni modo l’unica società a innescare discussioni circa la supposta preferenza di lavoratori “ospiti” rispetto a quelli oriundi degli States.
Reid Hoffman, founder del social network professionale per eccellenza LinkedIn , sostiene che il programma H-1B vada ampliato, il limite del 15% della forza lavoro rimosso imponendo nel contempo una tassa per ogni lavoratore possessore di un visto, fondi che potrebbero essere reinvestiti in programmi rieducativi a beneficio del sistema d’istruzione americano.
E chissà se si tratta di una buona idea: gli “stranieri” contesi dalle aziende hi-tech stanno facendo dietrofront verso i paesi di provenienza, siano essi India, Cina o quant’altro.
Alfonso Maruccia