C’è chi ha fatto notare come tutto questo assomigli al cliché cinematografico del cosiddetto stallo alla messicana , situazione in cui due o più personaggi si tengono sotto tiro a vicenda con delle armi da fuoco. Solo che non si tratta di un film di Quentin Tarantino, ma delle reali vicende che da tempo ruotano intorno ad aggregatori di news online e motori di ricerca come quello di Google. L’ultimo sceriffo in giacca nera a presentarsi sulla scena degli ormai noti ladri di contenuti non si chiama Mr. Orange, bensì Jason Calacanis: CEO della web directory Mahalo.
Durante una recente puntata del web show This Week in Startups (TWiST), Calacanis ha suggerito un modo efficace per uccidere Google nel momento in cui i grandi colossi editoriali come quello del magnate Rupert Murdoch decideranno di uscire dalle indicizzazioni del search engine di Mountain View . BigG si ritroverebbe così in una situazione veramente difficile, perché i contenuti del Wall Street Journal e del New York Times potrebbero volare presto verso altri lidi, verso gli indici di un competitor come Bing.
“È materialmente possibile provocare un forte impatto sul business di Google – ha commentato Calacanis – perché potrebbe arrivare a perdere 10, 20 punti di share in appena un anno. Questo se i primi dieci editori decideranno di uscire dalle sue indicizzazioni”. E sicuramente uno di questi dieci ha già comunicato a Mountain View la sua ultima volontà: escludere i siti che fanno capo a NewsCorp dalle farabutte scorribande di un vampiro succhianews . La stessa Google aveva risposto per le rime alle dichiarazioni di Murdoch, spiegandogli che sarebbe bastato chiedere per ottenere immediatamente la rimozione dagli indici.
E infatti di rimozione si è nuovamente parlato, per bocca di Jonathan Miller, chief digital officer di News Corp (nonché ex-collega di Calacanis ad AOL). Miller ha ribadito che il tycoon australiano provvederà alla rimozione totale delle proprie fonti dal search engine e dal news aggregator di BigG e che tutto questo avverrà presto, entro alcuni mesi . Durante il Monaco Media Forum , Miller ha dipinto una fosca situazione di tensione nello scontro tra un modello free e uno a pagamento. Situazione che, a suo dire, dovrà essere sbloccata perché la lettura gratuita delle notizie online non ne valorizza l’alta qualità né fa bene alla stessa sopravvivenza del settore editoriale.
Non sembra eccessivamente preoccupato Jonathan Miller, nemmeno davanti alle recenti analisi di Experian Hitwise che hanno rivelato alcuni dati significativi: Google e Google News costituiscono i principali percorsi di traffico verso le pagine online del WSJ, con una percentuale prossima al 25 per cento. “Il traffico che proviene da Google – ha spiegato l’uomo di Murdoch – porta con sé un consumatore che al massimo legge un articolo e poi lascia il sito. Si tratta di un traffico non particolarmente profittevole. L’impatto derivante dal non essere indicizzati da Google non è così devastante come si crede. Sopravviveremo ugualmente”.
Ancora una volta, da Google sono piovuti messaggi sereni, sottolineando come un modello a pagamento non sia una catastrofe per il futuro di Mountain View. BigG sarà flessibile davanti a nuovi modelli di business, ha spiegato il business product manager Josh Cohen, che ha poi avvertito gli editori in rotta verso i micropagamenti. “Se inizierete a far pagare – ha commentato Cohen – allora aspettatevi meno traffico, oltre al fatto che i vostri competitor si riveleranno particolarmente entusiasti nel raccogliere quello che avete fatto cadere sulla strada”.
Miller, intanto, si è dichiarato fiducioso sulla possibilità che altri editori seguano le orme di NewsCorp , sulla scia delle profezie di Calacanis. Sicuramente uno di questi è già Associated Press che sta ulteriormente calcando la mano sulla questione dei pagamenti nei confronti dei suoi contenuti. Tom Curley, a capo di AP, ha annunciato che chiederà a BigG di creare un registro per le news, in modo da ottenere rank più alti rispetto ai blog truffaldini che proliferano nel web come presunti parassiti.
Tornando alle dichiarazioni di Calacanis, un motore di ricerca che potrebbe avvantaggiarsi del fuoco divampante delle polemiche è Bing. Come riportato da TechCrunch Europe , pare esserci stato nel Regno Unito un incontro segreto tra responsabili di Microsoft e un gruppo di editori europei, principalmente legati a quotidiani. La strada apparirebbe chiara: presto Bing potrebbe accaparrarsi l’esclusiva per tutte quelle fonti giornalistiche stanche del comportamento da Bela Lugosi di Google.
Microsoft sarebbe così pronta ad investire nella ricerca relativa allo standard Automated Content Access Protocol (ACAP), per permettere ad autori ed editori di dettare condizioni e termini d’uso ad aggregatori online e motori di ricerca. Un modo per mettere le mani su un protocollo apparentemente destinato a rimpiazzare il largamente utilizzato robots.txt che già di per sé permette agli editori di scegliere tra due amletiche opzioni: indicizzare o non indicizzare.
Sulla querelle tra Murdoch e Mountain View è intervenuto anche Carlo Malinconico, presidente della Federazione Italiana Editori Giornali (FIEG), che ha parlato di contenuti da valorizzare perché frutto di una ricchezza creata dalle aziende con investimenti e creazione di posti di lavoro. “Non c’è nessuna avversione nei confronti di Internet né di Google – ha spiegato Malinconico – le nostre preoccupazioni sono che la produzione di ricchezza, che costa, vada svilita dal fatto che in rete attraverso i motori vi sia la possibilità di accedere in modo rapido, con dei link, a degli articoli. Il rischio è che alla fine la capacità di creare contenuti editoriali si impoverisca fino a svanire”.
Uno degli interrogativi finali, tuttavia, riguarderebbe gli utenti, i lettori. Saranno disposti a pagare per qualcosa che sinora hanno ottenuto in maniera gratuita? Una recente ricerca del Boston Consulting Group ha fatto emergere che gli utenti statunitensi sono meno disposti a pagare per i contenuti online rispetto ad altre nazioni europee . Si tratterebbe di una percentuale favorevole del 48 per cento negli Stati Uniti contro una del 60 per cento nel Vecchio Continente. A sorpresa, i lettori statunitensi pagherebbero in media un obolo di 3 dollari al mese, meno della metà di quello che sborserebbero gli italiani: 7 dollari (4,6 euro) ogni 30 giorni pur di fruire dei contenuti insostituibili di quotidiani e periodici.
Mauro Vecchio