Murdoch: tutto ha un prezzo

Murdoch: tutto ha un prezzo

Il magnate australiano spinge sul pedale sulle notizie a pagamento. Ma non tutti concordano: l'economia dei link porta altrettanti frutti
Il magnate australiano spinge sul pedale sulle notizie a pagamento. Ma non tutti concordano: l'economia dei link porta altrettanti frutti

Rupert Murdoch ha dichiarato, nuovamente , che l’era delle notizie gratuite su Internet è finita. Ora, tuttavia, le sue intenzioni sembrano supportate da un’analisi da lui commissionata e dall’esperienza del Wall Street Journal , che seppure abbia dovuto aumentare il prezzo del suo abbonamento su Kindle, sembra confortare il gigante dei media australiano.

Il nuovo progetto ha ora anche una scadenza: entro il prossimo anno fiscale i quotidiani dovranno rendere a pagamento i propri siti Web. Murdoch ha quindi ribadito il suo impegno a far da guida alla rivoluzione dell’informazione, fiducioso che il modello pay-per-view possa risultare vincente e che, una volta dimostrato il suo successo, gli altri lo seguiranno.

Una scelta, questa, che sarebbe di economia e di qualità: Murdoch afferma che il giornalismo non può essere gratuito e di valore allo stesso tempo e che fermerà la migrazione dei propri lettori a siti gratuiti rendendo i propri contenuti migliori e differenti dagli altri. L’intenzione è capitalizzare, per esempio, gli scoop sui VIP che fanno salire “le visite a cifre astronomiche”.

La nuova energia infusa nel progetto di rivoluzione dell’informazione sembra venire dal colpo subito con i risultati finanziari della sua News Corporation, che ha registrato una perdita netta di 3,4 miliardi di dollari. Solo i giornali britannici hanno avuto, per esempio, un calo del 14 per cento delle entrate pubblicitaria.

La soluzione individuata prevede ora una guerra a tutto campo: bisogna impedire che storie e fotografie vengano riciclate da altri , dimostrare la volontà di entrare in causa ogni volta che sia necessario e difendere il copyright con intransigenza.

Una guerra che già si combatte sui giornali online che, secondo una statistica relativa agli Stati Uniti, avrebbero registrato 70,3 milioni però di visitatori solo nel mese di giugno (36 per cento del traffico Internet), godendo però solo dell’ 1 per cento del tempo che i netizen spendono nel Web .
Eppure la trincea scavata da Murdoch vede già schierata Associated Press, che aveva annunciato di voler individuare e diffidare coloro che abusino di citazioni o di link alle sue notizie. Minacciando il ricorso a mezzi legali.

Grazie al servizio di tracciamento dei contenuti, AP riuscirebbe a recuperare anche i più piccoli introiti pubblicitari illegittimamente incamerati dal sito che, senza permesso, riproduce l’articolo. Il piano di AP non sarebbe quello di limitare l’uso delle proprie notizie, ma di metterle a frutto. Anche solo per un minimo di 5 parole.

Prontamente Reuters aveva risposto con un post del dirigente Chris Ahem: con il Manifesto “Perché credo nella link economy” ha risposto direttamente ai progetti di monetizzazione dei contenuti che rimbalzano in rete senza autorizzazione.

Ahem afferma che “Internet non sta uccidendo l’industria dell’informazione, così come la TV non ha ucciso la radio o la radio i giornali”. Si tratta infatti di mezzi e forme nuove di commercio che gli attuali leader del settore, loro malgrado, stentano a comprendere. Quello di cui c’è invece bisogno è un accordo generale fra tutti gli operatori dell’informazione, professionisti e amatori, su come utilizzare i contenuti altrui. Per entrare nell’era che definisce del “giornalismo 3.0”, in cui il link diventa il mezzo con cui si alimenta il valore della singola storia: il passaparola, il dibattito ed il concatenarsi di notizie accresce il contenuto ed il suo valore.

Claudio Tamburrino

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Pubblicato il
6 ago 2009
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