Con riferimento al rapporto ed all’articolo sulla crescente diffusione del P2P e sulla veicolazione di contenuti coperti da copyright e royalty, mi permetto di presentare un’interpretazione della situazione che mi pare sfugga ai più.
Stiamo vivendo un periodo di transizione: si parte da un tempo in cui la royalty era legata al supporto (disco in vinile), ed alla sua distribuzione; in tali tempi supporto e distribuzione avevano dei reali costi per unità che dovevano essere sostenuti. Anche la selezione dei contenuti aveva un costo: soltanto i migliori (o presunti tali) potevano accedere alla pubblicazione delle proprie opere. Altrettanto vale per libri ed altri materiali.
Oggi viviamo in un tempo in cui non esiste più pre-selezione: tutti possono pubblicare, sia per assenza di selezione preventiva, sia per la sostanziale economicità dell’operazione: la selezione è fatta a posteriori dal mercato.
Ma la colossale differenza sta nella distribuzione dei contenuti: oggi la veicolazione dei contenuti non avviene più trasferendo un disco in vinile su una audiocassetta, o fotocopiando un libro, né tampoco recandosi in negozi e librerie.
Oggi è tutto accessibile via Internet, comperando legalmente con carta di credito, o condividendo file.
L’altro aspetto fondamentale è che, mentre un tempo i costi di distribuzione dovevano essere sostenuti in prima battuta dall’editore (anticipando soldi per la masterizzazione, correzione di bozze, pubblicazione, distribuzione, etc.), oggi i costi sono sostenuti direttamente dall’utente finale, che paga il canone ADSL, la telefonata (se dial-up), il costo del CD, del masterizzatore, della stampante, del toner, della carta.
In tutto ciò è rimasta una costante scandalosa: il costo dell’opera da acquistare, che non è stato decurtato di tutti i costi sopra elencati.
Di fatto, ciò che sta succedendo è uno scollamento tra un mercato che si rende sempre più conto (anche inconsciamente) di sostenere costi che un tempo non c’erano, e gli editori, che hanno scoperto quanto sia bello guadagnare per il fatto che i costi vengono implicitamente assunti da altri.
In tutto questo marasma chi ci guadagna sono gli avvocati, impegnati a dirimere questioni di dimensioni ormai planetarie, che coinvolgono pesantemente anche la libertà personale, per quanto concerne la privacy ed il monitoraggio del proprio traffico su Internet.
Un’ulteriore considerazione, che credo sia fondamentale per le considerazioni che seguono: assumendo che in media ogni individuo dedichi circa un terzo della propria giornata al sonno, ed un’altro terzo al lavoro o allo studio, restano al massimo (e mi paiono proprio tante!) circa 8 ore al giorno in cui è possibile consumare contenuti (audio, video, libri, etc.).
Aggiungo che parte di questi contenuti possono non essere coperti da diritti, o i diritti possono essere già stati preventivamente acquisiti. In sintesi:
– Il consumatore sostiene sempre più direttamente i costi legati alla produzione ed alla fruizione dei contenuti
– esiste un limite fisico alla possibilità di una persona di fruire dei suddetti contenuti
– vengono unilateralmente calcolati diritti economici legati ai contenuti
– esistono esigenze sentite dal popolo di libertà sia nell’utilizzo di tecnologie, sia di scambio di informazioni
(questo può anche significare anche soltanto un accordo di un brano musicale, un paragrafo di un testo, o una scena di un film)
Ad oggi, chiunque scarichi illegalmente anche soltanto una parte di un contenuto coperto da diritti commette un reato, e quindi può trovarsi la Polizia Postale o la Guardia di Finanza in casa, vedersi requisire tutto, ed essere sottoposto ad un processo, come il peggior delinquente.
Perché non si inizia a valutare concretamente la possibilità di far pagare un canone flat (così come per l’ADSL) per la consultazione via Internet di contenuti coperti da copyright? Di fatto, l’approccio è quello che è sempre stato utilizzato dalla SIAE, che si è assunta l’ onere (!) di raccogliere i diritti per conto degli autori, e di distribuirli (non entro nel merito della questione del come vengano distribuiti).
In questo modo si potrebbero eliminare gli incredibili rischi e costi legati alla gestione legale dei diritti (indagini, processi, etc.), pur garantendo introiti ragionevoli ad autori ed editori.
Si potrebbeo poi diversificare canoni per l’accesso ad informazioni di tipologie differenti (audio/video, porno, etc.), consentendo quindi di prevenire l’accesso ad informazioni indesiderate, nel caso non si paghi il canone richiesto.
Un altro approccio, forse più sensato e praticabile, potrebbe essere quello della distinzione sostanziale tra il consumo individuale e commerciale dei contenuti: si potrebbe liberalizzare il consumo personale (a costo zero) imponendo invece royalty a coloro che guadagnano sul contenuto (e cioè ne fanno un uso commerciale).
Con riferimento all’ultimo punto, e per concludere, sottopongo a tutti una questione sostanziale, che credo debba essere affrontata fino in fondo per poter dare una risposta definitiva al problema.
Una volta che un’informazione è stata divulgata, il suo utilizzo deve essere sempre sottoposto a copyright? Se una persona in televisione conia un nuovo modo di dire, o espone un nuovo concetto, ho il diritto di riportare tale informazione ad altri, senza chiedere l’autorizzazione, e senza pagare diritti? Devo sempre riportare la fonte da cui ho avuto l’informazione?
Ho il diritto di cantare un motivetto che ho sentito alla radio?
Ho il diritto di citare brani da libri che ho letto?
Ritengo sempre più fondamentale la distinzione tra utilizzo non profit ed utilizzo commerciale.
Andrea Rui