Internet sta accogliendo un numero sempre più elevato di strumenti di intelligenza artificiale per ogni attività. Automatizzare anche la creazione di video tramite IA è diventato molto semplice grazie ad applicazioni come Stable Diffusion Video o FlexClip, che sfruttano banche dati imponenti e risorse royalty-free per consentire a chiunque di realizzare opere grafiche animate in pochi minuti. Lo stesso vale per la musica, come ha dimostrato la stessa Google nel corso delle ultime settimane dando vita a MusicLM, l’IA che realizza brani da zero a partire da una semplice descrizione testuale.
Nella maggior parte dei casi citati si parla di servizi ancora in fase di prova, il cui accesso è limitato dietro paywall o previa iscrizione a una lista di attesa dai tempi ignoti. L’accesso, in altre parole, non è gratuito o, se lo è, richiede molta pazienza al fine di ottenere i permessi di utilizzo. Eppure, i primi frutti si mostrano già anche sulle piattaforme di streaming e incutono timore nei creator e nei colossi della discografia.
Tra aprile e maggio 2023, difatti, persino Spotify si è vista costretta a eliminare migliaia di brani musicali generati con l’intelligenza artificiale della startup Boomy, data anche la richiesta di misure ad hoc da parte dell’etichetta Universal Music Group o UMG. Di questi tempi è prassi quotidiana divertirsi con la generazione di musica apparentemente originale, prodotta dall’IA con un semplice intento ludico. Tra creatività e copyright, però, si presentano molti problemi.
L’IA per esperimenti musicali
L’utilizzo dell’intelligenza artificiale sta causando di questi tempi una trasformazione rapida e alquanto evidente dell’arte, nel modo in cui viene creata e percepita. Vale per i dipinti, i disegni, ma anche per la musica e le opere letterarie. Più i modelli IA vengono addestrati, più il pubblico deve porsi quesiti riguardanti la natura di un progetto artistico: è nato da uno sforzo umano o dal complesso incrocio di dati da parte delle AI?
Distinguere un creatore umano da uno artificiale è tutto sommato semplice una volta comprese le caratteristiche chiave della seconda tipologia di prodotti: spesso usano suoni eccessivamente anomali, in una successione poco naturale o fin troppo complicata per appartenere a una mente umana. Esistono poi persone che addirittura spingono le soluzioni IA per la musica sui social, mostrando ad esempio tra TikTok e YouTube canzoni “cloni” di artisti particolarmente famosi, o il cambio della voce di una canzone con quella di un altro cantante rispetto all’originale.
La sperimentazione è all’ordine del giorno usando strumenti come ChatGPT e Google Bard per generare testi, o Uberduck per campionare file audio basandosi sui dati vocali degli artisti selezionati. Alcuni risultati li potete ascoltare cercando su YouTube “AI Cover”, e onestamente sono preoccupanti: Freddie Mercury canta Hotel California, Kanye West canta Viva la Vida dei Coldplay, e i Beatles si divertono sulle note di Bohemian Rhapsody. Ce n’è davvero per tutti i gusti!
Un dibattito apparentemente interminabile
È quindi chiara la necessità di discutere sul rapporto tra IA e musica, in quanto sorgono dilemmi giuridici non indifferenti. In primis, bisogna parlare dei dati sulle voci degli artisti: l’intelligenza artificiale con quali file è stata addestrata? Chi detiene il diritto di autore sui brani cantati dal corrispondente artificiale dei migliori cantanti al mondo? Qualcuno potrebbe attribuire il copyright al creatore dell’algoritmo, mentre l’etichetta discografica e gli artisti potrebbero rivendicarlo a loro volta, come anche la persona che ha commissionato il brano all’IA.
Negli Stati Uniti ultimamente si è teorizzato il concetto di “copyright ibrido”, secondo il quale la proprietà intellettuale viene suddivisa per gradi, sulla base del contributo dato da artisti, titolari del diritto d’autore di un brano usato come base o ispirazione, e creatore dell’intelligenza artificiale utilizzata.
In questa confusione è molto difficile trovare la quadra, ma c’è chi propone soluzioni personalizzate: ad esempio, la cantante canadese Grimes ha proposto ai creatori di sistemi IA di usare la sua voce per addestrare i software, a patto che essa riceva il 50% delle royalties. L’idea alla base di questa soluzione è che, a prescindere dal desiderio di coloro che creano il brano, i modelli IA già dispongono dei dati necessari alla conclusione del processo creativo. È palese, del resto, che la musica disponibile su Internet è accessibile a chiunque disponga di una connessione e, privatamente, possa utilizzarla liberamente.
Nel caso in cui venga utilizzata “dietro le quinte” risulta arduo determinare però l’esatto approccio degli sviluppatori a tale contenuto: in che modo viene sfruttata una canzone per addestrare l’IA? Deve essere il creator a renderlo noto, adottando una certa trasparenza nei confronti di chi detiene il diritto d’autore e di chi intende utilizzare il suo servizio.
Pronti alla rivoluzione?
La discussione dovrà pertanto coinvolgere cantanti, musicisti, etichette discografiche e sviluppatori, con l’obiettivo eventuale di proporre una soluzione centralizzata che permetta la generazione di “musica ibrida”, ovvero di cover in cui l’IA unisce la base di un brano con la voce di un altro cantante, magari solitamente collocato agli antipodi del genere musicale scelto.
Il futuro della musica è altamente personalizzato e le opportunità accessibili al pubblico appaiono davvero immense, sotto ogni punto di vista dell’industria musicale, dalla produzione di album al marketing. Questa rivoluzione non deve però compromettere la creatività, non deve sostituire i producer, i cantanti e gli scrittori, grazie ai quali le IA possono oggi sbizzarrirsi assieme a chi le utilizza.