Web (internet) – Il 15 dicembre è partita la prima fase della liberalizzazione dei domini italiani, quelli .it, e Partite Iva da tutta Italia si sono tuffate nel nuovo torrente a caccia dei pesci più grandi. In 5 giorni la Registration Authority ha ricevuto circa 14mila richieste di registrazione, a dimostrazione che l’attesa per il primo passo della liberalizzazione delle registrazioni è stata lunga da parte di moltissimi.
Fino al 15 dicembre scorso chi possedeva una Partita IVA poteva registrare un solo dominio di top level italiano, .it appunto. Oggi chi ha una Partita IVA può registrarne quanti ne desidera. Il prossimo passo deve essere quello di offrire a tutti, Partita IVA o meno, la possibilità di registrare uno o più domini italiani, contrassegnati dall’estensione .it. Su questo la Naming Authority ha già dimostrato di voler ragionare e discutere stimolando un pallido ottimismo.
Si può obiettare che l’opportunità della “fase uno” è stata colta solo per un pezzettino, perché la stragrande maggioranza dei domini che appariranno su questi schermi prossimamente è legata alle parti più citate dell’anatomia maschile e femminile, ma è una obiezione di parte. Nel mare magnum delle richieste quei termini finiscono inevitabilmente per farsi largo, ma ci sono anche molti altri domini in arrivo, specializzati e di categoria, che fanno sperare in un futuro di diversificazione, molteplicità e crescita per la rete italiana.
In attesa del prossimo passo in quello che appare come un inevitabile cammino verso la liberalizzazione della registrazione, non si può fare a meno di chiedersi quali siano le profonde o remote ragioni, quelle “vere” intendo, per cui ancora oggi soltanto chi possiede una Partita IVA possa possedere un dominio .it. Considerando che per un dominio .com, .net o .org la Partita IVA non è necessaria si potrebbe dedurne che si tratti del solito, trito e obsoleto “caso italiano”.
Ciò che colpisce di questa profonda limitazione alle possibilità di crescita della rete e delle attività degli italiani in rete è la “concezione commercialistica” da cui questi ostacoli sembrano originare. Il criterio individuato per limitare le richieste a fini strutturali e organizzativi, infatti, è quello economico e commerciale: tra chi dispone di una Partita IVA perché commerciante o professionista e chi, invece, non ha motivo di averla. Ma non è la Partita IVA a decidere se ciò che si fa, e si produce, ha valore o meno. Tantomeno in rete.
Prima si riuscirà a rimuovere questo inutile elemento di discriminazione, prima anche la rete italiana potrà avvicinarsi ad una concezione ancora in voga nel nordeuropa, quella della “rete per la rete” o, se si preferisce, della “rete per comunicare”. In questo periodo di e-business esasperato e modaiolo si rischia infatti di dimenticarsi dove scorra in realtà la linfa vitale e creativa di internet.