L’etichetta “nativi digitali” è stata un grande abbaglio. La bellezza di questa definizione, originaria dei primi anni del nuovo millennio, è nella fotografia in controluce che è stata in grado di offrire di una nuova generazione di ragazzi. Nella definizione di Marc Prensky (“Digital Natives, Digital Immigrants“) c’è la geniale intuizione del fatto che qualcosa di profondamente nuovo stesse per accadere ed in questa definizione ci si è accovacciati per troppi anni nella convinzione per cui fosse onnicomprensiva e sufficiente per capire un intero fenomeno.
Ma così non è. Quella fotografia in controluce ci ha descritto il profilo della nuova generazione che stava per sopraggiungere, ma non ce l’ha fatta vedere in volto. In quella visione sono emersi pertanto grossi preconcetti insiti nella generazione antecedente, che in un bambino che tocca un display ha visto l’improvvisa accelerazione di una generazione che non avrebbe dovuto faticare per comprendere le dinamiche basilari dei dispositivi dell’era odierna. E di questo problema ne pagheranno le spese soprattutto gli stessi “nativi digitali”, sedotti dalla tecnologia e abbandonati al proprio destino da genitori e maestri. Non è mai troppo tardi per recuperare, ma occorre muoversi subito, partendo dalle definizioni e dai numeri. Perché presto o tardi i “nativi digitali” saranno classe dirigente.
Nativi e analfabeti
Lo spunto per questo approfondimento giunge dall’interessante spunto di Anna Rita Longo che nel 2017 proponeva per Scientificast “il paradosso della Generazione Google“, quella di ragazzi tanto nativi digitali quanto analfabeti digitali. Una provocazione? Probabilmente si, ma supportata da dati reali.
Numeri alla mano, infatti, è dimostrato come le nuove generazioni vivano oggi il profondo e pericolosissimo paradosso di non avere le necessarie competenze digitali, ma al tempo stesso credere di averle. E che non si pensi sia tutta colpa dei ragazzi, perché così non è: non solo non sono stati formati a dovere, ma la loro situazione è figlia della superficialità con cui la generazione precedente ha pensato che, in quanto nativi, non avrebbero avuto bisogno di un percorso di formazione e addestramento alle nuove tecnologie.
Paradossalmente chi è nato negli anni ’70-’80, pur penalizzato dall’aver dovuto faticare per imparare su tecnologia in continua e vorticosa evoluzione, si trova oggi meglio posizionato rispetto a quanti, pur nati in un ambiente meno ostile, non hanno avuto un percorso pedagico ed esperienziale tale da poter costruire quel budget basilare di competenze che si dovrebbero poter spendere tanto nella scuola quanto nel mondo del lavoro.
Spiega un report dell’Associazione Italiana per l’Informatica e il Calcolo Automatico (pdf):
I giovani non possiedono di per sé le competenze per l’utilizzo in maniera sicura e efficace delle tecnologie e le competenze acquisite informalmente rischiano di essere incomplete. L’insufficiente attenzione a far sì che i giovani acquisiscano competenze complete in maniera formale, conduce ad un nuovo divario “digitale”, ossia tra uno “stile di vita digitale” e le competenze digitali richieste dal mondo del lavoro. La mancanza di conoscenza degli strumenti necessari alla forza lavoro di oggi contribuisce a una nuova generazione di individui che non riesce a realizzare il proprio pieno potenziale come studenti, impiegati, imprenditori o cittadini di tecnologie digitali.
“Il 42% degli studenti non sono sufficientemente consapevoli dei rischi di una connessione Wifi, il 40% non protegge l’accesso ai loro telefoni e il 50% mai o raramente controlla le autorizzazioni che le applicazioni richiedono prima dell’installazione“. A questo sondaggio in ambito universitario si aggiunge uno studio della “Computer International and Information Literacy Study” (ICILS) secondo cui il 17% degli studenti di terza media non raggiunge un livello minimo di competenze digitali e solo il 2% un livello da considerarsi “alto”: “le conclusioni dello studio indicano come sarebbe ingenuo aspettarsi che i giovani acquisiscano le competenze digitali di cui hanno bisogno senza una formale istruzione e formazione“.
Quel che rende più grave il tutto è nella “discrepanza tra l’autovalutazione e la conoscenza reale delle competenze informatiche“: se l’84% dei ragazzi si dichiara convinto di avere una conoscenza “buona” o “molto buona”, le prove pratiche dicono che il 49% ha ottenuto un risultato pari a “male” o “molto male”. E questo è un gap che si evidenzia particolarmente accentuato nella fascia 15-29 anni.
Stile passivo
Lo studio dell’AICA suggerisce una interessante chiave di lettura legata allo “stile di vita”:
Il tempo che gli adolescenti trascorrono online per messaggi di testo, giochi, recupero dei contenuti o consumo di contenuti passivi (la visione di video) è preoccupante.
Insomma, il tempo che i “nativi digitali” passano sui dispositivi lo passano spesso e volentieri su modalità tali per cui si è entità ricevente, a volte vagamente interattiva, raramente creativa (se non per strumenti che si riciclano negli ambienti già indicati, quali chat e social network). A tali considerazioni va aggiunto un elemento ulteriore: l’abbandono delle postazioni desktop in favore del mobile ha sicuramente reso più “presenti” le persone nell’ambiente digitale (poiché always-on), ma al tempo stesso i singoli sono meno stimolati ad una conoscenza più approfondita. L’ambiente desktop pone naturalmente l’utente in una posizione differente e meno passiva, più in controllo dei propri file, più vicino al codice, più aperto allo studio delle dinamiche che stanno dietro la semplice interfaccia. I “nativi digitali”, che minori legami hanno con l’ambiente desktop e che hanno costruito gran parte della propria esperienza sui piccoli display, conoscono un altro modo di “stare online”: è una dimensione fatta di presenza, fatta di identità, fatta di pubblicità. Servizi invece di software, dati invece di denaro, visibilità invece di anonimato: quanti paradigmi sono stati silentemente ribaltati, quante differenze nel giro di una sola generazione.
La generazione precedente (quelli che Prensky definiva “immigrati digitali”) ha dovuto apprendere con fatica molte nozioni con lo scoramento del doverle reimparare più volte a seguito di una innovazione incessante. Per questa generazione il valore dell’apprendimento viene prima di ogni cosa, poiché il merito si misura non tanto in termini di volume di nozioni apprese, quanto in capacità di rapida metabolizzazione di competenze nuove. Ecco il motivo per cui ai ragazzi va anzitutto insegnato un processo, demonizzando lo “stile passivo” come pratica deleteria ai fini dell’assorbimento delle capacità che durante la propria vita si potranno spendere nel mondo del lavoro.
Questa generazione è un cuscinetto situato a metà tra una generazione che ha rinunciato ad abbracciare l’innovazione digitale ed una che è nata abbracciata dall’innovazione stessa. Se ai primi non resta che far passare le nozioni base in grado di migliorare l’esperienza di vita, con i secondi occorre fare un lavoro molto più profondo e importante: si tratta di una responsabilità e di un importantissimo investimento per il futuro.
Responsabilità
Le critiche alla definizione di “nativi digitali” sono in auge da tempo, fino a costringere lo stesso Prensky a nuove formulazioni successive. Questo ardore nel dover definire in qualche modo le differenti generazioni in rapporto alla tecnologia è già di per sé significativo, poiché significa porre la tecnologia al centro e ragionare sull’uomo in funzione di questa. Così non può e non deve essere ed una visione tecnocentrica non può che portare alle distorsioni di cui è viziato il termine “nativi digitali” e tutto quel che ne è derivato in seguito.
Il termine “nativo digitale” suggerisce falsamente come i giovani intuitivamente sappiano usare le tecnologie digitali. Questo termine perpetua una percezione sostenuta da alcuni genitori, insegnanti e politici e porta all’omissione dai programmi scolastici di materie volte a sviluppare competenze digitali.
Ognuno si assuma le proprie responsabilità, quindi: genitori, docenti, istituzioni e chiunque abbia un ruolo nella formazione dei ragazzi ha il dovere di comprendere appieno ciò che significa essere “nativi digitali”. Significa essere nato in un certo contesto iper-tecnologico, ma non significa per questo essere nato con competenze digitali pre-installate. Occorre quindi stimolare i ragazzi alla curiosità, instillare in loro in dubbio circa l’assoluta necessità di comprendere il sistema e i processi che regolano il mondo immateriale della vita online.
Una ulteriore difficoltà sta nelle differenti modalità di apprendimento ormai incarnate nella nuova generazione, tali per cui una formulazione top-down poco aiuterebbe alla divulgazione di quelle competenze che si vorrebbero incarnate nelle nuove leve. Più che una pioggia nozionistica, magari partendo da una noiosa storia dell’informatica, occorre pizzicare la corda del dubbio, quella che può far vibrare di curiosità la mente di un ragazzo fino a fargli battere il cuore per il desiderio di capire. Occorre abbattere la passività e riportare il ragazzo al centro della scena: attore attivo (non nel senso di Youtuber…), non strumento del proprio device o avatar del proprio account.
Europass descrive così le competenze di un “utente avanzato” alla voce “comunicazione”:
Uso una vasta gamma di strumenti di comunicazione (posta elettronica, chat, SMS, messaggistica istantanea, blog, micro-blog, reti sociali) per la comunicazione on-line.Posso creare e gestire i contenuti con strumenti di collaborazione (ad esempio calendari elettronici, i sistemi di gestione del progetto, di correzione in linea, fogli di calcolo on-line). Partecipo attivamente a spazi online e utilizzo diversi servizi online (ad esempio servizi pubblici, e-banking, lo shopping online). Posso utilizzare le funzioni avanzate di strumenti di comunicazione (ad esempio, videoconferenza, condivisione di dati, condivisione di applicazioni).
Molti dei nativi digitali sanno muoversi su strumenti di questo tipo, ma manca un tassello fondamentale: non sanno il perché. Non capiscono, non per colpa loro, quale sia la natura e l’importanza di molti di questi tasselli. Pensano sia sufficiente saper usare uno strumento per poterne fare il giusto uso.
Certo non si fa di tutta l’erba un fascio, e saranno sempre di più gli esempi di nativi digitali da cui nasceranno gli “unicorni” del domani nel mondo startup. Ma sono queste le eccezioni che confermano una regola naturale: occorre fornire ai ragazzi i giusti stimoli e le giuste competenze affinché, forti dell’essere nati in un favorevole contesto ipertecnologico, possano sedere sulle spalle dei giganti.
Nelle ore in cui la Fiera Didacta di Firenze porta ad incontrarsi il mondo della tecnologia e della formazione, una riflessione sui nativi digitali è del tutto essenziale. Altrimenti il divario digitale si trasformerà in un passo indietro che, in epoca di Big Data e Intelligenza Artificiale, tutto è fuorché auspicabile.