Al summit NATO che si è tenuto nei giorni scorsi a Cardiff, nel Galles, si è parlato anche di cyber-warfare e delle politiche da adottare in caso di cyber-attacchi contro i paesi membri. Si va quindi verso una stretta integrazione dell’Articolo V del trattato nordatlantico anche nell’ambito delle reti di comunicazioni telematiche.
L’ Articolo V del patto tra i membri NATO è quello della famigerata difesa collettiva, dove un attacco rivolto verso un singolo membro dell’alleanza viene considerato come un attacco contro tutti i paesi membri e produce risposte proporzionate alla minaccia.
Ora che la cyber-war è diventata il quinto grande scenario di guerra dopo terra, mare, aria e spazio, la NATO ha necessità di aggiornare la propria politica di difesa per tenere conto dei pericoli che provengono dagli attacchi a mezzo Internet.
L’obiettivo, abbastanza evidente viste le cronache della nuova crisi (fuori e dentro Internet ) tra paesi occidentali e Russia in terra ucraina, appare quello di mandare un messaggio a Mosca: l’organizzazione nordatlantica non ha intenzione di tollerare ulteriori sconfinamenti dell’ex-URSS (fuori e dentro la Rete delle reti) ed è pronta a rispondere con tutto il suo (cyber)potenziale.
Sulla carta l’adozione dell’Articolo V per il cyber-warfare fa effetto, nella pratica gli esperti di sicurezza dipingono uno scenario molto più articolato: un attacco sufficientemente devastante contro le infrastrutture telematiche di un paese porterebbe, già di suo, a conseguenze sul piano di un conflitto in carne, bombe e metallo prima ancora di mettere in pratica una cyber-controffensiva.
Alfonso Maruccia