Con l’avallo dei provider NebuAd racimolava informazioni sulle abitudini online dei netizen, con la collaborazione dei provider ha installato le apparecchiature per scandagliare nelle sessioni online dei cittadini della rete e per distillare dati da rivendere agli inserzionisti. Dopo le denunce dei cittadini della rete, NebuAd è stata ripudiata anche dai provider: le responsabilità, denunciano gli ISP in tribunale, sono da attribuirsi solo a coloro che hanno direttamente spiato i netizen.
L’ascesa dei behavioral advertising è passata attraverso la promessa di esperienze di navigazione personalizzata, proposte di default : è così che tra migliaia di utenti e il proprio provider si è incuneato un terzo attore, NebuAd, a tracciare clic e a ruminare sessioni di navigazione per risputare dati elaborati a favore degli inserzionisti.
Ma le cimici ospitate in seno ai provider si sono presto rivelate come tali: NebuAd, operatore di behavioral advertising che agisce sul mercato statunitense, è stata presto ricondotta a Gator , discusso dispensatore di spyware che intesseva il suo business a spesa di utenti monitorati. Il declino di NebuAd era già avviato: defezioni di provider e dipendenti si sono sommate alle critiche sferrate dai cittadini della rete. L’azienda è finita sotto processo .
A denunciare NebuAd sono stati associazioni e cittadini californiani: sotto accusa il fatto che NebuAd e una manciata di provider locali non interpellassero gli abbonati riguardo all’adesione al programma, ma costringessero invece all’ opt-out coloro che volessero svincolarsi dal servizio. Sotto accusa anche le pratiche di anonimizzazione dei dati raccolti, incapaci di offrire sufficienti tutele. I provider non sono stati risparmiati dalle denunce: la deep packet inspection, rivendica l’accusa, dovrebbe rappresentare una contromisura per combattere gli abusi, non una componente di una pratica commerciale.
Ma i provider, intermediari tra inserzionisti e comportamenti degli utenti, si sono ora dichiarati innocenti , partecipanti passivi di un gioco che si è intessuto tra i propri utenti e NebuAd. I dati personali degli utenti, spiegano gli ISP, sarebbero transitati senza mediazioni fra le mani di NebuAd: i provider, così si difendono , non avrebbero fatto altro che concedere all’operatore di behavioral advertising l’accesso alla propria rete e l’installazione dell’hardware necessario ad intercettare il traffico dei netizen.
La strategia legale degli ISP verterà inoltre sul fatto che la legge non prevede profili di complicità per coloro che favoreggino violazioni della privacy e truffe mediate dalla tecnologia. In attesa che la corte si pronunci a riguardo, il corrispettivo britannico di NebuAd, Phorm, guadagna consensi : ammesso che prima chieda ai cittadini della rete il permesso di frugare nella loro vita online.
Gaia Bottà