Stando agli esperti di indagini forensi negli USA, FBI e forze di polizia hanno in questi anni sfruttato un meccanismo di sblocco degli iPhone che non prevede il consenso degli interessati. I morti, infatti, non parlano né si rifiutano di collaborare, ed è appunto sfruttando le impronte digitali dei cadaveri che gli agenti starebbero provando – non sempre con successo – a superare le protezioni di Touch ID sui melafonini più recenti (da iPhone 5S in su).
Il primo caso di cadavere con impronta sblocca-iPhone sarebbe quello di Abdul Razak Ali Artan , dicono gli esperti di cui sopra, ovverosia l’attentatore che nel novembre del 2016 ha tentato di uccidere svariate persone investendole con l’auto e poi continuando a provarci a piedi con un coltello da macellaio. Sette ore dopo essere stato abbattuto dagli agenti di polizia, Ali Artan ha presto una sua impronta nel tentativo di sbloccare l’iPhone 5 che gli era stato trovato addosso dopo lo scontro.
In quel caso specifico lo sblocco non ebbe successo, visto che lo smartphone era andato in sospensione e richiedeva quindi l’inserimento di un codice di accesso. L’iPhone di Artan è stato poi sbloccato da un’azienda di terze parti, ma l’opportunità di sfruttare le impronte dei morti è divenuta presto popolare sia nell’ambito delle indagini federali che in quelle dei diversi stati americani.
Dopotutto un cadavere non ha, tecnicamente parlando, alcun diritto alla privacy , quindi l’utilizzo dei parametri biometrici per lo sblocco degli smartphone di ultima generazione non richiede di passare necessariamente da un giudice per farsi consegnare un’autorizzazione a procedere.
Con l’arrivo di Face ID , la tecnologia di riconoscimento facciale integrata su iPhone X, lo sblocco biometrico per mezzo dei cadaveri – laddove i tratti somatici siano ancora sufficientemente riconoscibili – dovrebbe infine aggiungere una nuova opzione per le indagini delle autorità nei confronti di attentatori, spacciatori di droga e criminalità assortita.
Alfonso Maruccia