I nemici dello smart working non sanno di esserlo

I nemici dello smart working non sanno di esserlo

Dopo le frasi di Giuseppe Sala può essere utile pensare all'effetto tsunami che una accelerazione dello smart working potrebbe determinare sulle città.
I nemici dello smart working non sanno di esserlo
Dopo le frasi di Giuseppe Sala può essere utile pensare all'effetto tsunami che una accelerazione dello smart working potrebbe determinare sulle città.

Non sapremo mai esattamente cosa volesse intendere il sindaco Giuseppe Sala quando parlando alla sua Milano ha proferito l’infausta sentenza sullo smart working (“ora torniamo a lavorare”). O forse non potremo mai ammetterlo, così come non può Sala stesso. Una cosa è certa: Sala non ha fatto retromarcia, perché voleva effettivamente chiedere a tutti un’inversione di tendenza e con la locuzione “effetto grotta” ha ben tratteggiato il proprio pensiero sul tema.

Ci sono una serie di non-detti in questa vicenda, però, che dovrebbero farci riflettere. Giuseppe Sala, infatti, aveva probabilmente un obiettivo in mente e doveva raggiungerlo senza poterlo però citare espressamente. Nelle sue vesti di sindaco della capitale economica del Paese, infatti, Giuseppe Sala ha il dovere di tutelarne identità e dinamiche, quelle stesse identità e dinamiche che hanno reso Milano quella che è diventata negli ultimi anni. Ma se questo si scontra con un corto circuito – peraltro inatteso – allora occorre decidere quale strada si intenda percorrere, e in fretta, perché Milano probabilmente non può più attendere. E non solo Milano: c’è una certa idea di futuro che non può attendere. Siamo di fronte, forse in modo del tutto improvviso e inconsapevole, a un bivio. Lo smart working ci è finito nel mezzo solo per caso, solo in modo fortuito, sicuramente senza precisa volontà, ma è diventato improvvisamente una cartina di tornasole utile a capire la questione.

Lo smart working, insomma, prima di poter diventare soluzione rischia di dover dimostrare di non essere un problema. E non sarà semplice.

Quel che non è lo smart working

Lo smart working, anzitutto, non è movimento. L’improvvisa esplosione dello smart working ha svuotato i mezzi pubblici, ha fermato i taxi, ha eliminato una feconda economia fatta di trasferimenti.

Lo smart working, inoltre, non è ristorazione. I bar si svuotano a colazione, restano vuoti a pranzo, perdono la pausa caffé ed hanno la possibilità di rifarsi soltanto nell’ora dell’aperitivo.

Lo smart working, soprattutto, non è accentramento. Non c’è motivo di pagare affitti onerosi quando quel che conta non è la posizione della casa, ma il suo involucro. Questo potrebbe portare ad una minor domanda di abitazioni, rallentando la crescita nell’area metropolitana abbassando il valore degli immobili e le tariffe degli acquisti.

Lo smart working, laddove scoraggia l’accentramento, riduce anche il passaggio sulle strade, abbassando l’appeal delle vetrine e l’importanza strategica di un posizionamento che conta nei luoghi di maggior passaggio: un pericolo serio per la boutique di città e per chi ne possiede i locali.

Lo smart working ha una colpa (hey, ma non dovrebbe  essere una virtù?) tanto involontaria quanto seria, estremamente seria: blocca milioni di spostamenti sui quali si regge un’enorme economia. Bisogna immaginare di porre un blocco ad uno degli ingranaggi chiave di un’economia secolare: improvvisamente l’attrito andrebbe a moltiplicarsi a dismisura. Lo smart working è dunque deleterio da un certo punto di vista, pur essendo una benedizione sotto altri aspetti (sociali, economici, produttivi), ma tutto questo non volge a favore di riforme utili ad incoraggiarne l’adozione. Scegliere la strada dello smart working, infatti, è qualcosa che la politica potrà fare soltanto con estrema accortezza, badando a bilanciare rischi e opportunità per evitare che il tutto diventi semplicemente uno shock per settori che rischierebbero una rapida ridefinizione.

Il rischio è quello di scardinare una ruota che gira (magari male, ma gira) proiettando un intero ecosistema in una nuova dimensione: una rivoluzione dal sicuro potenziale, ma alla quale occorre preparare non soltanto i diretti interessati, ma un intero indotto – un miliardario indotto. Questione estremamente complessa, che dovrà mettere attorno a un tavolo giuslavoristi, politici, economisti e sociologi. Ma del resto nessuna rivoluzione può essere cosa semplice: quella che bussava alla porta come un’evoluzione naturale, oggi anticipa i tempi cavalcando un’evento abnorme come quello di una pandemia. In che misura sapremo coglierne la magnitudo? In che misura nasconderemo tutto sotto il tappeto per non correre troppo in fretta verso una dimensione alla quale non siamo – come società e sistema paese – pronti?

Tutta l’economia del non-smart working

Quanta economia (e quante abitudini sociali) ruota attorno al lavoro in ufficio? Questa domanda dovrà essere bilanciata con una uguale e contraria: quanta economia ruota attorno al lavoro in remoto? Fermo restando il fatto che lo smart working non è “grotta” ma è per sua natura movimento, va da sé che il movimento stesso avviene soltanto in caso di necessità: una pandemia non fa che trasformare il lavoro in isolamento, bloccando l’economia di strada e svuotandone le casse rapidamente.

Ragionare su cosa lo smart working vada a bloccare, insomma, è un buon modo per capire quali saranno i nemici dello smart working stesso nei mesi a venire. Sarà così più semplice capire chi tenterà di ridurlo a “effetto grotta”, chi ne andrà a demonizzare il ruolo, chi andrà a ridurlo a sottospecie del lavoro “vero”. Ragionare su questi aspetti aiuta a capire perché Giuseppe Sala abbia detto certe cose, pur pensando ad altre che non poteva dire. Ognuno farà il suo gioco, insomma: una volta compresi i nemici dello smart working, si potrà capire se ci sia spazio anche per una lobby favorevole. Perché avere come maggior alleato una pandemia non è certo qualcosa che possa reggere nel lungo periodo…

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Pubblicato il
22 giu 2020
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