Nel marzo 2017, l’account ufficiale Twitter di Netflix scriveva L’amore è condividere una password
. Altri tempi, quando era la piattaforma stessa a promuovere gli account condivisi, potendo contare su ritmi di crescita garantiti da un’assenza quasi totale di concorrenti all’altezza. Oggi la situazione è ben diversa, la società non attraversa il suo periodo migliore e i competitor stanno progressivamente rosicchiando quote di mercato.
Account condivisi su Netflix: la strategia
È per questo motivo che dai piani alti è giunta la decisione di fare quanto possibile per monetizzare lo sharing delle password. Lo testimoniano le iniziative sperimentali messe in campo in alcuni paesi sudamericani, forzando gli utenti ad affrontare una spesa aggiuntiva per connettersi da location differenti. Non tutti hanno reagito bene, in alcuni casi si è assistito a delle vere e proprie proteste.
Per meglio comprendere quale sia la strategia del gruppo possiamo fare riferimento a un’intervista appena rilasciata da Karthik Sriram Chandrashekar, direttore della divisione Data Science and Engineering al servizio dell’azienda, alla redazione del sito Analytics India Magazine. Ne riportiamo di seguito in forma tradotta i passaggi più significativi.
Tutto ha inizio con la comprensione di quali account sono condivisi. Sulla base di queste informazioni, vogliamo sviluppare una strategia di prodotto che può aiutare a monetizzare il comportamento in un modo favorevole per il cliente.
Per accertare la condivisione dell’account, Netflix potrebbe far leva su sistemi automatici come quello proposto da Adobe (Primetime Account IQ) oppure sviluppandone uno internamente. Ciò che è chiaro è che, al momento, si tratta esclusivamente di sperimentazioni e non è detto siano destinate a essere replicate su scala globale, almeno non nella loro forma attuale.
Valutando queste strategie attraverso sperimentazioni complesse è fondamentale per il progetto su cui sto lavorando.
Sarà interessante anche capire se e come sceglieranno di muoversi le altre piattaforme, a partire da Disney+ e Prime Video (gratis con la formula Amazon Prime), anch’esse potenzialmente interessate dal problema.