Sono due parole chiave, sono due hashtag, sono due brand e sono due specchi nei quali tutti ci stiamo guardando. Una è Netflix, l’altra è Starbucks. Non c’è nulla di nuovo, perché in precedenza ci siamo già specchiati con Uber, e con Airbnb, così come con Wikipedia e Nespresso. E ci accorgiamo improvvisamente che lo specchio è quella cosa che, guardando in avanti, ti dovrebbe consentire di guardare quel che hai dietro.
Guardarsi, nel proprio contesto. Per capire davvero chi si è e cosa si è diventati.
Lo specchio Netflix, lo specchio Starbucks
Il titolo è servito: polemiche per la kermesse di Venezia perché ad essere premiato è “Roma”, un film prodotto da Netflix. Si tratta di una polemica che arriva da lontano, passa per Cannes ed ha origine all’interno del circuito di sale cinematografiche che fino ad oggi poteva decidere le sorti dei titoli, dei registi e dei produttori: la “sala” non è più al centro del concetto di “cinema” e questo è destabilizzante poiché ad essere in discussione è la filiera, nonché il suo modello di business, nonché i suoi protagonisti ed infine le sue regole. La difesa del cinema di qualità può passare attraverso l’ostracismo nei confronti di Netflix?
La domanda può essere rivolta pari pari anche nei confronti dell’altro specchio: la difesa del caffé di qualità può passare attraverso l’ostracismo nei confronti di Starbucks? Perché la dinamica è esattamente la stessa: il prodotto finale, lungi dall’essere il fine del lavoro dell’intera filiera, ne diventa foglia di fico e strumento di autodifesa. Chi doveva scommettere sul prodotto di qualità si trova a fare i conti con un’utenza che preferisce un prodotto altrui (a volte migliore, a volte peggiore: non si ceda al confronto tra i prodotti, perché non è questo il punto).
Giunge un momento in cui occorre quindi porsi di fronte questi specchi per capire davvero la nostra identità, perché questo è il punto. Guardarsi nello specchio di Netflix, ad esempio, consente di capire cosa abbiamo fatto per costruire un vero cinema di qualità, ma anche cosa abbiamo fatto per migliorare quella che è l’esperienza di visione all’interno della sala. E guardarsi nello specchio di Starbucks dovrebbe imporci di riflettere sul motivo che ci porta a centinaia di metri di coda per un caffé dopo aver progressivamente perso il gusto per il bar al bancone sotto casa. In quello specchio vedremo anni di immobilismo che non hanno sviluppato l’esperienza, la magia dell’incontro tra l’utente e il prodotto e il contesto in cui questo incontro avviene. Ma in quello specchio vedremo anche il volto invecchiato di un paese che continua a dire di puntare sulla qualità senza tuttavia costruire una cultura che la apprezzi davvero.
Il paese che ha dimenticato l’arte del caffé e la poesia dei Caffé può forse permettersi di contestare un brand che, legittimamente, porta su questo mercato (con successo) la sua proposta? Il paese che per anni ha foraggiato il cinepanettone può permettersi di contestare un Netflix che costruisce un prodotto universalmente riconosciuto come valido? Guardandoci allo specchio, abbiamo realmente validi argomenti, oppure stiamo soltanto gettando benzina sull’inerzia per far divampare uno strenuo e sterile protezionismo?
L’innovazione ingenua e l’identità
E poi c’è il rischio opposto a quello della “foglia di fico”, ossia l’ingenua convinzione per cui tutto quel che è nuovo sia giocoforza positivo poiché “innovativo”. Di per sé l’innovazione altro non è se non cambiamento, il che non implica per forza di cose che si tratti di un cambiamento positivo. Insomma, sarebbe il medesimo errore del bambino che tocca lo specchio nella convinzione di passarci attraverso, convinto che si tratti di una nuova realtà.
Netflix e Starbucks dovrebbero essere uno stimolo per migliorare la propria offerta, e invece diventano strumenti dai quali si spera di potersi difendere con il protezionismo. Male. Ma è un male soprattutto perché di fatto nessuno si sta preoccupando della qualità del prodotto, ossia l’unica cosa che può davvero interessare all’utente. L’intera polemica è basata sulla filiera e sul business, sul controllo del mercato della produzione, sul posto in prima fila tra i gusti dell’utente. Se si sposta il focus sul prodotto finale, occorre porsi domande opposte e solo apparentemente protezionistiche: Netflix ha davvero a cuore il cinema di qualità, oppure c’è il rischio di consegnargli le chiavi del settore per poi ritrovarsi prodotti di basso valore in un flusso di streaming in abbonamento mensile? E consegnare a Starbucks le chiavi del tempo libero non rischia di cancellare l’immenso valore sociale che il bancone del bar ha sul tessuto italiano? Bisogna tifare per l’una o per l’altra parte, oppure è più saggio tifare semplicemente per la libera concorrenza e per le magiche energie creative che è in grado di scatenare?
Mentre ci specchiamo, dovremmo capire non tanto cosa ci sia dietro e cosa ci sia di fronte, quanto chi siamo veramente. Netflix non è giocoforza il male, ma dobbiamo capire se ci interessa o meno passare una serata al cinema; Starbucks non è giocoforza il male, ma dobbiamo capire se andiamo al bar per gustarci un buon caffé o se per passare del tempo in compagnia. L’innovazione in sé non è bene e non è male, ma incarna quella ricerca di benessere che si scatena quando una pulsione sgorga da una nuova idea e suggerisce di modificare l’abitudine in cerca di un nuovo status.
Netflix e Starbucks siano l’occasione per capire cosa vogliamo diventare: guardandoci allo specchio, dove di fronte abbiamo noi stessi e tutto ciò che ci sta alle spalle.