È sempre importante ricordare uno dei principi dell’etica hacker ben descritti da Steven Levy nel suo ormai storico testo Hackers: Heroes of the Computer Revolution (1984). Detto anche Hands-On Imperative , in italiano è stato tradotto con il motto: “dare sempre precedenza all’imperativo di metterci su le mani!”. L’ Hands-On Imperative è da anni un’importante fonte d’ispirazione per chi vuole trasformare in pratica concreta l’attitudine e il piacere di scomporre gli oggetti del quotidiano (non solo le macchine), per aprirli e renderli più accessibili, vedere come funzionano e spesso ricomporli in qualcosa di più interessante e utile per una collettività più allargata. Un concetto che ben si collega alla visione di etica hacker, implicando la necessità di mantenere l’accesso libero, l’informazione aperta, favorendo il cosiddetto sharing knowledge , o scambio di conoscenze. È ancora più interessante ricordare oggi i principi dell’etica hacker perché, nonostante siano passati quasi trenta anni dalla pubblicazione del libro di Steven Levy, a livello generale la figura dell’hacker viene spesso ancora confusa con quella del cracker (e quindi vista in senso dispregiativo, associandola con chi intrude i sistemi oppure crea atti di “cybervandalismo”, una parola sempre molto cara a tanti giornalisti).
Del resto l’attitudine a svelare i retroscena delle macchine e delle interfacce costituisce una sfida sempre attuale, se si pensa a come molti artisti, hacker e attivisti stiano cercando di andare oltre l’accattivante sorriso di facciata di molte piattaforme di social networking, sorriso che si trasforma in un ghigno se si prova a giocherellare un po’ con le diverse funzionalità arrivando a concepire qualcosa di “imprevisto” oppure a indagarne i limiti strutturali (come ho descritto in questo precedente articolo ). Come tanti hacker hanno insegnato, l’idea di “metterci le mani” si collega a quella di non dare troppo per scontato che tutto sia trasparente e che funzioni a nostro favore. La tecnologia non è mai del tutto neutrale. Dietro l’interfaccia user-friendly spesso si nascondono dei mondi paralleli, geografie digitali che ci rivelano molto sia dal punto tecnologico che politico.
Su questo riflette Morten Riis, compositore danese di musica elettronica e PhD scholar all’Università di Aarhus in Danimarca, attualmente impegnato in un progetto di steam machine music – qui il video della sua music steam machine recentemente assemblata. Riis si chiede se il digitale sia veramente il “medium perfetto” di diffusione e riproduzione musicale: è proprio vero che tutte le copie digitali sono uguali all’originale oppure è possibile indagare le geografie nascoste della riproduzione e rivelarne i meccanismi? Siamo veramente in un ambito di totale trasparenza per la distribuzione e l’ascolto della musica? Morten Riis risponde con il pezzo Digital Silence : un tentativo di esporre i “manufatti digitali nascosti” che concernono la realtà di condivisione di musica su Internet e le tecniche di compressione del suono in vari formati digitali. Metaforicamente, l’opera è anche un invito a riflettere su ciò che si cela oltre l’apparenza di una presunta “perfezione tecnologica” e sulle architetture nascoste dei mondi digitali.
Come scrive Morten Riis, i manufatti digitali che popolano le piattaforme di file sharing, come The Pirate Bay e isoHunt. indicano che “il mezzo perfetto” forse non è così perfetto e trasparente come si crede. “La BitTorrent practice ci svela una realtà più disordinata, che mostra gli artefatti e gli scarti del mezzo digitale, inquadrando la moltitudine dei vari algoritmi di codifica e compressione che partecipano al processo di consumo e distribuzione di musica digitale e alla sua ridefinizione”. Il metodo di Digital Silence si basa sulla semplice sottrazione. Si parte da un file audio e si crea una sua copia digitale. Si inseriscono i file su due track diverse di in un editor audio garantendo loro lo stesso indice iniziale e le stesse impostazioni di volume. Si inverte poi il secondo file (la copia), mantenendolo nella stessa posizione iniziale nella track audio (producendo quindi un’inversione di fase). Riproducendo i due file insieme si ottiene il cosiddetto “digital silence”. Questo silenzio digitale avviene solo se i due file sono perfettamente identici, e la composizione musicale diviene l’assenza di suono (e la mente va subito a John Cage , il compositore della corrente Fluxus). Morten Riis suggerisce poi di fare lo stesso con altri due file audio presi da Internet, scaricando due versioni dello stesso brano. Pur se tutti i parametri sono gli stessi (canzone, artista, produzione, mastering, ecc.), ciò che cambia sono le diverse codifiche digitali e gli algoritmi di compressione. Riproducendo i due file insieme (di cui uno è l’inversione dell’altro), si sentirà questa volta il suono della differenza fra i due, che Morten Riis definisce “il suono della compressione digitale”, o “il suono dei rifiuti digitali”. Sorprendentemente, il risultato rispecchia ancora il motivo generale della canzone di partenza, ma è diventato un fruscio: è il suono delle architetture invisibili, la voce di ciò che sta oltre l’apparenza della perfezione. Si ascolti per esempio la differenza tra due versioni dello stesso brano Just Dance di Lady GaGa:
Tutto ciò fa venire in mente le tecniche di cut-up audio descritte da William S. Burroughs nel testo The Electronic Revolution , una raccolta di saggi pubblicata nel 1970. Qui, Burroughs, con il suo incisivo e indimenticabile stile letterario, ci racconta come il linguaggio – e il suono registrato, invertito e riprodotto – può essere usato come forma di potere e di controllo delle masse. Riflettendo sulle possibilità rivoluzionarie e radicali insite nella decomposizione e ri-assemblaggio del linguaggio, e sulle tecniche virali di trasmissione dei significati, Burroughs analizza la genesi creativa delle pratiche sovversive e dei “bug” nel sistema di controllo sugli individui. Un immaginario destrutturante e critico che cerca di indagare le geografie del reale, e di riappropriarsi degli spazi pubblici lavorando sulle architetture della comunicazione.
La stessa attitudine hacker si trova nel recente progetto del duo Les Liens Invisibles , composto da Clemente Pestelli e Gionatan Quintini, creato per lo Share Festival di Torino e presentato in un workshop per la prima volta. Il lavoro, chiamato ” R.I.O.T. / Reality Is Out There ” ( qui il sito), si basa sul concetto di “realtà aumentata”, e sul fatto che attraverso l’uso degli smartphone nell’ambito territoriale è possibile accedere a una infosfera parallela, non visibile ad occhio nudo, e riappropriarsi dello spazio pubblico attraverso un atto di hacking urbano. I vari dati virtuali geolocalizzati e i livelli codificati che si possono esperire solo usando gli smartphone diventano una geografia da scoprire e svelare, ma anche un’occasione per decomporre e invadere consapevolmente – e ironicamente – la realtà quotidiana. Come si legge nel sito dello Share Festival, “lo spunto del nuovo progetto di Les Liens Invisibles è il tema di Share Festival 2010, l’errore/ smart mistake , che il collettivo interpreta come alterazione della realtà che grazie all’aiuto di queste tecnologie si impone aumentata “.
Un invito quindi ad effettuare una vera e propria psicogeografia nelle strade di Torino, nei luoghi topici della città, alla ricerca di messaggi e immagini invisibili. Scaricando il reality browser Layar (per iPhone e Android) e accedendo al livello RIOT, la passeggiata nella città di Torino si è sviluppata attraverso sculture virtuali da cercare e rincorrere nello spazio urbano: la pioggia degli uomini in bombetta della Golconde di René Magritte ( Ceci ne pas réalité ); i teschi simbolo di The Pirate Bay con conseguente possibilità di scaricare e caricare file musicali nell’infosfera ( The Pirates Are Out There ); il monumento alla Banana Revolution, definito Les Liens Invisibles’ Monument to the best Revolution ever ; l’invasione degli alieni space-invaders ( Public Space Invaders ); la Revolution Will Be Iconised che mostra una realtà in cui i social network si fanno strumento di proteste virtuali; Riot in University , in cui si svelano invece le creazioni degli studenti dell’Università di Torino realizzate in un precedente seminario a cura dei Les Liens Invisibles; infine, in P0rn is Out There , la realtà aumentata accede agli interstizi pornografici…
Immagini digitali da scoprire nella città, immagini silenziose, che però appena scoperte, ci sussurrano nuove possibilità di comprensione del reale, creando un puzzle dinamico oltre la superficie del visibile.
Tatiana Bazzichelli
www.tatianabazzichelli.com
networkingart.eu
Fonte immagini:
Audacity Screenshot
Tatiana Bazzichelli, R.I.O.T. Share Festival 2010