Una interpretazione estensiva del reato di sostituzione di persona ( art. 494 del codice penale) che verrebbe imposta dalla rivoluzione tecnologica per evitare pericolosi fenomeni quali molestie ed aggressioni online. La Corte di Cassazione ha così incluso gli pseudonimi cibernetici – in termini anglofoni, nickname – tra i contrassegni identitari sfruttati per attribuire “a sé o ad altri un falso nome, o un falso stato, ovvero una qualità a cui la legge attribuisce effetti giuridici”.
Il caso esaminato in Cassazione riguarda il ricorso di una donna che, per vendetta, ha sfruttato un nickname – in realtà, le semplici iniziali – associandolo al numero di telefono di una sua ex-datrice di lavoro. Costituitasi parte lesa, la seconda donna ha denunciato la ricezione di numerosi messaggi a sfondo erotico, compresi alcuni MMS con immagini pornografiche . Il suo numero di cellulare era infatti finito a disposizione degli utenti di una chat a luci rosse.
Nella visione offerta dai giudici della Corte di Cassazione, “non può non rilevarsi al riguardo che il reato di sostituzione di persona ricorre non solo quando si sostituisce illegittimamente la propria all’altrui persona, ma anche quando si attribuisce ad altri un falso nome o un falso stato ovvero una qualità a cui la legge attribuisce effetti giuridici, dovendosi intendere per nome non solo il nome di battesimo ma anche tutti i contrassegni di identità”.
Tra questi stessi contrassegni, spiega la Corte, “vanno ricompresi quelli, come i cosiddetti nicknames (soprannomi) utilizzati nelle comunicazioni via Internet che attribuiscono una identità sicuramente virtuale, in quanto destinata a valere nello spazio telematico del web, la quale tuttavia non per questo è priva di una dimensione concreta, non essendo revocabile in dubbio che proprio attraverso di essi possono avvenire comunicazioni in rete idonee a produrre effetti reali nella sfera giuridica altrui, cioè di coloro ai quali il nickname è attribuito”.
La stessa Cassazione aveva già condannato un 40enne romano per lo sfruttamento indebito dei dati anagrafici di una donna, in modo da aprire un account di posta elettronica e dunque creare un nickname su una non meglio specificata piattaforma di aste online. In quel caso, l’aver adottato un nome di fantasia – che pure è attività legittima quando si partecipa alle aste – non aveva costituito un presupposto sufficiente ad eludere una responsabilità penale per sostituzione di persona.
Mauro Vecchio