Metti allo stesso tavolo, a piacimento, un lettore e un editore, uno sportivo e un gestore di palestre, un malato e un produttore di farmaci, una donna normale e uno stilista. Osservali parlare e valuta la progressiva distanza crearsi tra le rispettive posizioni, nonostante sia chiaro a entrambi che, nello specifico campo di interesse, dalle decisioni dell’uno dipende la soddisfazione dell’altro. Se un’azienda si allontana dai desideri dei suoi clienti, perderà quote di mercato; se un cliente non accetta le offerte delle aziende, non avrà modo di procurarsi i prodotti che desidera o di cui ha bisogno.
Grazie a Internet e alla tecnologia la prima condizione è ancora sempre vera, la seconda progressivamente meno, soprattutto per certi settori. La rete ci permette spesso di rispondere a bisogni importanti – socialità, intrattenimento e cultura, per esempio – senza mercificazione: è uno dei motivi per cui la condivisione gratuita di conoscenza e i media sociali innervosiscono così tanto chi ne è fuori.
Per quanto riguarda i romanzi, per esempio, è chiaro che l’offerta di contenuti tipici dei blog personali è in concorrenza con la narrativa di evasione: meno chiaro è se un editore può entrare in questo contesto senza rovinarne le dinamiche sociali, ma guadagnandoci. Venerdì scorso in un dibattito ai WebDays a Torino ho assistito – da moderatrice – a un interessante scambio tra relatori e pubblico sul modo in cui l’uso intensivo della rete riduce gli spazi per la lettura senza sacrificare il piacere di ascoltare delle storie. Alla fine è parso evidente a tutti che un “modello di business” della narrativa spontanea online (autobiografica e non) potrebbe anche non esistere mai, anche perché il vantaggio della narrativa sociale è che incontrare di persona l’autore è facile, ma soprattutto è possibile incontrare il personaggio, perché coincidono. Come fai a ricavare soldi da una cosa del genere? E soprattutto, è giusto farlo?
Una possibile risposta potrebbe arrivare da Chris Anderson, che con la sua “Long Tail” ci ha già aiutato a capire quanto le nostre scelte siano diverse quando abbiamo davanti cataloghi completi, e non guidati dalla disponibilità fisica di merci in magazzino.
Anderson sta studiando i modelli di business basati sul gratis , partendo da Gillette che è riuscita a imporre le sue lamette dopo vent’anni di insuccessi semplicemente regalando (o quasi) i rasoi e arrivando alla pubblicità, che sempre più spesso paga i costi annullando il prezzo finale di mercato, come nella free press. In mezzo l’affascinante idea che il software così come lo conosciamo oggi nasce grazie al continuo abbassarsi dei costi dei componenti (oggi siamo a 0.000001 cent per transistor), che insieme all’aumento della potenza ha permesso ai programmatori di disinteressarsi dell’efficienza delle applicazioni e di concentrarsi sulle funzionalità (con risultati non sempre validi, ma questo è un altro discorso).
Tornando all’incontro tra domanda e offerta, come cambiano i mercati se la mercificazione si sposta di un livello, e cioè se qualcun altro paga i costi dei prodotti che acquistiamo? Riusciamo a immaginare un mondo in cui è tutto gratis (non a basso costo: gratis) e ogni azienda fa comunque profitti? Anderson parla di un “mercato a tre vie”, come è oggi quello della pubblicità televisiva, della free press o di Google (un terzo paga per i servizi di cui tu fruisci): è possibile un mercato a tre vie per l’editoria libraria? Per le medicine? Per il radicchio rosso?
Secondo Anderson “le opportunità per avere modelli di business basato sul gratis non sono mai state più ampie” e stiamo per riscrivere l’economia – “la scienza sociale della scelta in condizioni di scarsità” (Milton Friedman) – grazie a una tecnologia a costi sempre più bassi. Sarà vero? E sarà vero anche offline?
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