Solo ieri ho ricevuto due richieste di lavoro (rifiutate) per una campagna di “buzz marketing”. Non mi piace essere negativa, presentare solo i problemi senza una soluzione e sembrare una talebana aliena alle semplici regole del mercato, ma io questa cosa del “buzz” non la mando proprio giù. Non perché non creda al potere del passaparola, ma perché, come detto tante volte, qui e altrove, il passaparola nasce e cresce da solo, a partire da qualcosa di oggettivamente interessante: non si può comprare, non si può “lanciare”, non si può fingere. Se è virale, dev’esserlo in sé, come l’influenza: si diffonde perché è interessante e divertente, non perché hai pagato 20 studenti per dire che è interessante e divertente in tutti i social network.
I consigli di un amico hanno valore proprio perché sono disinteressati: nel momento in cui questo amico si fa pagare per consigliarmi qualcosa, la sua affidabilità cala. E come si fa a improvvisarsi amici di qualcuno, come sembrano chiedere tutti gli uffici marketing nell’ultimo mese? Loro la chiamano “infiltration”, ma quali sono i risultati di queste operazioni? Funzionano davvero? Perché se funzionassero io per etica professionale dovrei accettare di prenderli in considerazione anche se contraddicono la mia etica personale (oppure cambiare lavoro).
Un blogger assai pestifero il 30 dicembre ha chiamato una decina di “blogstar” chiedendo quanto sarebbe costato un post sul loro blog: “Ho chiamato dicendo di essere inguaiato per l’eventuale sponsorizzazione di un succo di frutta austriaco – dovendo distribuire in complessivo in tutta l’italica blogosfera una somma pari a 70mila Euro, somma spendibile in tot post scritti su commissione. Paradossalmente non è nemmeno una balla (eccetto che per il bene da promuovere).
Ovviamente davo la possibilità di specificare sul blog che si trattava di una marketta (ma anche no): e poi qualche chiacchierata in libertà.
– “Quanto vuoi per scrivere un articolo sul succo di frutta?”
Ho appositamente scelto un prodotto non tecnologico, di basso appeal, giusto per testare la disperazione totale-globale che poteva aleggiare nella blogopalla.”
Dei dieci prescelti uno ha rifiutato senza se e senza ma, uno (un collega) ha cercato di orientare meglio la richiesta, otto hanno – chi più chi meno – tirato fuori una specie di listino prezzi. Niente di esecrabile, sia chiaro, anche se la mercificazione dei rapporti sociali, valorizzati in euro, a me turba sempre un po’. Mettiamo comunque da parte le anime belle, e pensiamo in termini pratici: se io domani scrivo sul mio blog un bel post sul succo di frutta – dicendo che è una marchetta – e l’azienda X mi paga, spende bene i suoi soldi o no?
Detto in altri termini, e se avessi torto? E se tutti noi che ci affidiamo alle dinamiche spontanee di diffusione delle informazioni, basate sull’intelligenza distribuita e sull’entusiasmo sincero, avessimo torto? Se fosse davvero possibile creare attenzione su un prodotto poco interessante in sé solo perché la fonte è considerata autorevole/simpatica/interessante? Non mi piacerebbe essere smentita, ma non mi piace neanche non mettere mai in discussione alcune certezze, tipo che barare un po’ all’inizio non porti a nessun risultato. Qualcuno vuole provare a convincermi?
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