Una volta in una chiesa protestante di Chicago ho visto all’ingresso dell’oratorio una specie di casellario con tante schede, con la targhetta Our community . Le schede erano l’equivalente delle pagine personali di un sito, tutte insieme rappresentavano l’insieme dei fedeli che frequentavano quella chiesa.
Ci sono parole che hanno una storia fortunata e sfortunata insieme, perché devono il loro successo alla nutrita varietà di significati che viene loro attribuita. Fortunate perché molto utilizzate, sfortunate perché quasi sempre a sproposito, rendendole di fatto inservibili, anzi, controproducenti ai fini della comprensione. “Community” è sicuramente una di queste parole, abusatissima e nello stesso tempo inutile, proprio a causa del mancato accordo su una sua definizione precisa, soprattutto in Italia.
Nei paesi anglosassoni, dove la socialità è più strutturata in Club, leghe, associazioni, gilde e così via, le community esistono già nella realtà: noi europei siamo più individualisti e fatichiamo a capire di cosa parliamo quando ragioniamo di insiemi di persone accomunate da un qualcosa, che sia tangibile o no. Spiegare cos’è una “online community” a chi non ne frequenta nessuna è praticamente impossibile soprattutto per questo motivo: l’innovazione non è tecnologica, ma sociale. La tecnologia è come sempre solo un fattore abilitante: la discriminante tra chi si avvicina a questi mondi è la capacità di accettare l’esistenza di un “oggetto sociale” come elemento aggregante, che sia una passione, un prodotto, una persona, una pratica o un partito politico.
Spesso per un’azienda, abituata a comprare e a catturare l’attenzione dei possibili clienti, comprendere l’esposizione spontanea, appassionata e volontaria non solo a un prodotto ma anche ad altre persone con cui si ha in comune quel prodotto, è quasi impossibile. Eppure è così semplice: il processo di scelta e consumo di un prodotto implica una relazione che va ben oltre l’utile, che coinvolge le nostre emozioni, le nostre passioni e implica una profonda fiducia. Comprare qualcosa, che sia il pane (che mangio), un biglietto del treno (a cui affido la mia incolumità), un vestito (che parla di me e mi copre), qualunque acquisto insomma ha una fortissima componente emotiva che può e deve trovare una sua declinazione anche in termini di socialità con chi condivide queste mie scelte.
Se accettiamo l’unica definizione possibile di “community” come “insieme di persone che hanno qualcosa in comune” (dove l’accento è su “persone”) vediamo che molti dei dubbi e delle incomprensioni si hanno sui rapporti che intercorrono tra queste persone. Quando persone accomunate a un livello profondo da X non si conoscono tra di loro è meglio infatti parlare di community “latente”: in questo senso è fuorviante parlare di sviluppo di community, perché le community esistono già, quello su cui bisogna lavorare è la consapevolezza dei singoli dell’esistenza degli altri e gli strumenti che permettono loro di tenersi in contatto e conoscersi meglio.
In una parola, il lavoro di “community design” consiste nell’individuare una community latente e nel fornirle gli strumenti per diventare “attiva”, cioè per creare relazioni libere e spontanee con gli altri. Una via di mezzo esiste, e la definiamo community “inattiva”: le persone che si riconoscono nell’oggetto sociale proposto non hanno rapporti tra di loro, ma solo con il sito che si propone come punto di raccolta (per esempio registrandosi senza poter poi comunicare in pubblico). Una specie di coitus interruptus;-)
Se torniamo al nostro percorso di avvicinamento al pieno utilizzo di Internet come ambiente di comunicazione, ogni passo che facciamo implica un aumento della socialità, tratto completamente assente nella comunicazione offline, dove anzi si fa il possibile per evitare il contatto diretto tra chi lavora in un’azienda e i clienti, soprattutto in ambito consumer. Online questa distanza è controproducente ai fini del raggiungimento degli obiettivi di marketing: essere presenti in rete deve implicare una disponibilità personale all’interazione di chi comunica.
Non è pensabile opporre un muro di scarsa disponibilità al calore di chi ti ha scelto, anche se il calore con cui rispondere può e deve essere interpretato a seconda del posizionamento dell’azienda (non voglio che la mia banca mi racconti barzellette). Se come azienda non sei ancora pronta a lasciar parlare liberamente i tuoi dipendenti con i tuoi clienti non aspettarti grandi risultati dal digital marketing: anche la semplice risposta a una mail o a un commento, necessaria fin dalle prime fasi, risente dell’eccessiva pianificazione e controllo.
La prima community spontanea intorno a un prodotto infatti è proprio quella di chi ci lavora: se loro non sono liberi di comunicare negli ambienti online che metti a disposizione, difficilmente potranno esserlo i tuoi clienti. Se è così, meglio lasciare che lo facciano altrove ( ascoltando ) e stare in disparte mentre la community latente dei tuoi clienti si attiva e cresce senza di te.
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