Larry Flynt era un editore specializzato in pornografia, non quella patinata ed elegante alla Playboy, pornografia di quella porca, sporca e squallida. Flynt non si accontentava di fare palate di soldi con i suoi giornali: lui voleva veder riconosciuto il suo diritto a pubblicarli, diritto messo in discussione da una lunga serie di associazioni per la pubblica moralità che negli anni hanno cercato di impedirgli di invadere le edicole con nudi ginecologici e foto di amplessi ai confini della realtà.
Larry Flynt ha combattuto la sua battaglia con tale veemenza da farsi sparare e non l’ha fatto nel nome del diritto alla libera impresa, già di per sé molto sentito negli Stati Uniti: l’ha vinta, come voleva, nel nome del Primo Emendamento, quello che permette a ogni cittadino americano di dire quello che pensa, anche se non ha nessun valore, anche se è ritenuto dannoso per la comunità, anche se viene ritenuto squallido dalla maggioranza delle persone. Non c’è bisogno di scomodare Voltaire per capirlo : la libertà di parola e di espressione non può e non deve dipendere da una validazione esterna della specifica parola e della specifica espressione.
È un po’ come la neutralità della rete , che è un valore in sé, non solo quando vogliamo proteggere i contenuti che consideriamo rilevanti (che variano assai a seconda delle persone). Se la rete è neutrale tutto ha uguale dignità di essere trasmesso, che sia un giochino di gattini virati glitter, un mp3 senza DRM o una ricerca scientifica. Se la rete è neutrale tutti hanno diritto di esserci e di parlare, dal politico della parte avversa alla deficiente della scrivania di fronte, al troll che infesta il mio blog.
C’è da chiedersi se i PM Alfredo Robledo e Francesco Cajani abbiamo mai sentito parlare di Larry Flynt e di Voltaire (lasciamo perdere la neutralità della rete). C’è da chiedersi cosa pensano delle loro richieste di condanna David Carl Drummond, George de Los Reyes e Peter Fleischer (ma anche Arvind Desikan), che senza scomodare Flynt e Voltaire sanno benissimo che un servizio come YouTube può funzionare solo se tutti sono liberi di pubblicare quello che vogliono e che qualunque procedura di controllo non farebbe che rallentare i contenuti leciti e di fatto impedire il normale funzionamento di una piattaforma di pubblicazione su cui circolano milioni di video.
Se il valore da difendere è la libertà di espressione a prescindere dal contenuto, che senso ha fare causa a Google se dei ragazzi pubblicano su YouTube un video che li ritrae mentre molestano un portatore di handicap? L’associazione ViviDown e il Comune di Milano (parti civili) sono davvero convinti di risolvere problemi sociali (il bullismo e la mancanza di sensibilità) impedendo la pubblicazione del video che li (auto)denuncia? Senza YouTube non c’era bullismo, o lo vedevamo meno? Perché non fare causa anche a chi produce videocamere? Se davvero questo video era al 29esimo posto della classifica dei video più cliccati che responsabilità hanno tutti coloro che l’hanno guardato e magari girato a un amico? Ed è una responsabilità morale o legale?
La direttiva europea 2000/31/CE, ripresa in Italia dal Dlgs 70/03 , sancisce che il fornitore di un servizio non ha nessun obbligo di sorveglianza nei confronti dei contenuti che transitano sui suoi server, privati e pubblici. È una legge che protegge tutti noi dal rischio che qualcuno un giorno decida che cosa si può dire e che cosa no. Se Google viene condannata – se i quattro dirigenti di Google vengono condannati – a rischio non è la loro vita o il funzionamento di YouTube, è la nostra libertà di parola e di espressione.
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