NoLogo/ Dover dire di no

NoLogo/ Dover dire di no

di Mafe de Baggis - Non se ne esce: da anni costruiscono comunità web, ci spendono sopra milioni e poi le affidano ad uno stagista abbandonato a se stesso. Tra piattaforme proprietarie e mancanza di visione
di Mafe de Baggis - Non se ne esce: da anni costruiscono comunità web, ci spendono sopra milioni e poi le affidano ad uno stagista abbandonato a se stesso. Tra piattaforme proprietarie e mancanza di visione

Anche se per molti di noi è difficilissimo crederci, molte persone scrivono, commentano, si registrano e cazzeggiano sulle community dei siti aziendali. Molte, ma anche molte meno di quante ci si potrebbe aspettare se queste community fossero non solo meglio progettate, ma soprattutto meglio gestite. Questa è la conclusione (non inaspettata) di un’interessante ricerca portata avanti da Deloitte, Beeline Labs (che spero non vadano mai a Genova) e la Society of New Communications Research, The 2008 Tribalization of Business study .

Siamo sempre lì: è dai tempi di Net Gain , cioè dal 1997, che sappiamo che passare da un marketing unidirezionale a un marketing orizzontale porta vantaggi sia alle aziende sia ai clienti, ed è dai tempi di Net Gain (1997) che moltissime aziende (nonché consulenti, nonché web agency) ripetono gli stessi identici errori, in una specie di Giorno della marmotta dei social media.

Quali errori? È molto semplice: spendere un sacco di soldi per una piattaforma tecnologica proprietaria e “originale” (cioè non standard) da far gestire poi a uno stagista abbandonato a se stesso o – peggio – nei ritagli di tempo di qualcuno che di lavoro fa qualcos’altro.

La realtà descritta nella ricerca è tragicomica: come sintetizza Blogs4biz circa il 35% delle community analizzate hanno meno di 100 (cento) utenti registrati, a fronte di investimenti che per il 60% di queste aziende superano il milione di dollari. È una realtà che si può scegliere di leggere in due modi diversi: il primo, il più immediato, è che i social network aziendali non hanno senso, soprattutto considerando che marciamo spediti (ahem) verso la decentralizzazione e la syndication delle identità digitali. È una lettura corretta in molti casi: per molte aziende e per molti prodotti avere un proprio social network è completamente inutile. Come dice il mai troppo citato Derek Powazek, chi di mestiere progetta community ha il dovere di dire no ai propri clienti.

L’altra lettura – quella che mi permette di guadagnarmi da vivere – è che quando un’azienda approccia un progetto di community dalla giusta prospettiva i risultati ci sono eccome, non tanto in termini assoluti (i numeri restano piccoli) ma di ritorno sugli investimenti. Perché la giusta prospettiva è ora e sempre quella dei piccoli passi, del cambiamento continuo, dell’umiltà, dell’adottare le soluzioni che hanno funzionato altrove, del partire in silenzio, ascoltando, rispondendo solo se necessario, facendo amicizia, mettendosi in gioco, proponendo strumenti di interazione solo quando è evidente che esiste una massa critica di persone interessate, ascoltando i loro consigli (anche se espressi con aggressività spesso petulante), ascoltando, ascoltando, ascoltando. Con la persona giusta per farlo: qualcuno che farebbe parte di quella community anche se non dovesse lavorarci.

Mafe de Baggis
Maestrini per Caso

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Pubblicato il
25 lug 2008
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