Milano – Antipatica, arrogante e pretestuosa: agitatrice di bavagli, difensora di aziende censuranti, incompetente. Pensavo peggio, come reazione al mio sfogo della settimana scorsa . Non speravo in un vero e proprio blog drama (quello riesce solo se ci sono di mezzo gadget o quotidiani nazionali), anzi: al contrario, temevo che molti fossero d’accordo con me.
Continuo a credere nelle potenzialità che Internet ha di migliorare il mondo (sic), ma penso che nell’ultimo periodo abbiamo assistito a una serie di segnali per me sconfortanti, soprattutto in Italia, ma non solo. Certo, io ho fatto quello che ho sempre criticato negli altri: mi sono lasciata andare al piagnisteo di chi si è un po’ annoiata di un ambiente e confonde la sua stanchezza con la scoperta di difetti nella situazione.
Per questo le reazioni stizzite di molte persone mi confortano: forse non siamo messi così male. Diciamo che ho riscontrato sulla mia pelle quella che Ora Lassila di Nokia, durante un convegno a Bari il 30 maggio, ha definito “la mancanza di memoria della rete”: un problema paradossale per un medium che tecnologicamente permette di conservare e ricercare enormi quantità di informazioni, dovuto soprattutto al modo in cui noi esseri umani usiamo effettivamente questa possibilità.
Per esempio, prendi una persona che da tempi non sospetti ha dedicato la sua vita professionale ai social media e alla libertà di espressione e di circolazione delle idee. Se all’improvviso questa persona riflette criticamente sui social media stessi, in una situazione dotata di memoria (e di attenzione) chi legge dovrebbe comportarsi in modo diverso di quando la critica arriva da una fonte esterna, magari disinformata. Non è (quasi) successo. Certo, è tipico delle community il ripetersi ciclico di discussioni come se non ci fossero mai state. Mancanza di memoria, appunto, che però non è il massimo come base per una “rivoluzione dei media”.
Ho parlato di “dovere di tacere” (in qualche situazione): forse avrei dovuto definirlo “istinto di tacere”. Fa tutto un altro effetto, me ne rendo conto. È che da sempre ripeto che la differenza tra blogger e giornalisti è soprattutto che i blogger parlano solo di cose che conoscono, perché non sono obbligati a parlare del resto: piccola verità che vedo sbiadire via via che la voglia di protagonismo prende il sopravvento sul piacere di raccontare.
Per esprimere il mio disagio nei confronti della crescita dell’aggressività digitale ho volutamente usato un esempio di scortesia nei confronti delle aziende, quasi sempre giustificata in base alla mancanza di umanità delle stesse. Stiamo quindi dicendo che se qualcuno si comporta male posso trattarlo male? Siamo sicuri di volerlo considerare un progresso?
Il progresso c’è indubbiamente perché tutti – aziende comprese – possono esprimersi e chiacchierare liberamente: a maggior ragione questo è un bene prezioso da proteggere, magari non confondendo come spesso accade la libertà di fare qualcosa con il farla a tutti i costi e senza doversi preoccupare delle conseguenze.
Questo a maggior ragione mentre al Parlamento Europeo è in discussione l’ ennesima normativa che cerca di regolarizzare quello che per sua natura non può essere regolarizzato, e cioè le relazioni umane: un po’ di autocritica ogni tanto a mio parere male non fa.
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