Gianluca Neri qualche giorno fa raccontava di un ragazzo che, per attirare la sua attenzione, gli ha mandato una finta vera copia di Wired con la sua foto in copertina. Mi ha fatto venire in mente un colloquio che feci tanti (troppi) anni fa con Maurizio D’Adda , allora direttore creativo di Saatchi&Saatchi. Tra una chiacchiera e l’altra (i colloqui tra copywriter non sono una cosa serissima) saltò fuori il discorso delle candidature spontanee, delle persone che farebbero qualunque cosa pur di lavorare in un’agenzia di pubblicità, del piccolo archivio di manufatti strampalati, belli, a volte geniali che una grande agenzia riceve invece dei soliti curriculum (il mio era un quaderno cucito a mano con fogli di carta colorata a mano con i pastelli con scritti sopra i miei racconti, ma soprattutto l’annuncio “Copy vergine cerca agenzia senza scrupoli”).
Le code per i provini dei reality; il praticantato in redazione; le gare di creatività per fare gli schiavi in agenzia; gli aiuto dell’aiutoregista; lo stagista di Boris; Flashdance; le code per iscriversi a relazioni pubbliche nel 1987; gli apprendisti, Giotto e Cimabue, i test di accesso a Scienze della Comunicazione e potrei andare avanti ancora a lungo a elencare esempi di sbattimenti di mille tipi, di oggi e di ieri, di tutti quelli che sognano un posto di lavoro nell’industria dei media, che sia radiotelevisionemusicaeditoria, che sia arte, che sia pubblicità annessi e connessi.
Ieri al convegno dello IULM, “1911/2011: il secolo McLuhan”, Giovanni Boccia Artieri , stimolato (o provocato?) da Carlo Formenti (che è riuscito a parlare più di Marx che di McLuhan), ha detto che “prima o poi dovremo fare i conti con il proletariato digitale”. La sua posizione (credo) non è estrema come quella di Formenti, Lanier, Lovink, insomma tutti quelli convinti che Internet e il web 2.0 siano poco altro che una gigantesca macchina di sfruttamento del lavoro volontario. Boccia Artieri è interessato più che altro al modo in cui il dispositivo culturale, in cui siamo immersi, funzioni come una gigantesca tela di ragno, per cui più ti agiti più rimani bloccato: più partecipi, magari credendo di combattere il sistema culturale dominante, più entri a farne parte e lo rafforzi.
La tesi di Formenti invece è che il web 2.0 sia addirittura “il capolavoro del capitale”, perché ci fa “lavorare senza saperlo”: ma siamo sicuri? È vero che Facebook, Twitter, Flickr ecc lucrano sui nostri contenuti, ma è anche vero che se percepiamo quello che pubblichiamo come lavoro (cosa non vera nella maggior parte dei casi) è perché siamo interessati a una visibilità che ci permetta di entrare nel fantastico mondo della comunicazione, siamo interessati alla tela di ragno.
Formenti, Lanier, Lovink e compagnia fondano i loro sillogismi sulla premessa che sia la Rete a creare questo lavoro spontaneo, ma non è affatto così: la vera domanda è se ci sono motivazioni profonde (al di là dell’ovvio) per questa enorme eroticità del passare da fruitore a produttore di comunicazione. Perché questa pulsione nasce ben prima del computer, di Internet e del web 2.0.
Mafe de Baggis
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