I fatti sono un supporto irrinunciabile alle decisioni: l’istinto alla lunga fa la differenza, ma i fatti, soprattutto se concretizzati in numeri credibili, sono la base su cui costruire qualunque strategia. Il problema nasce quando i numeri che usiamo per supportare le nostre scelte sono più una convenzione che la rappresentazione di un fatto: un accordo tra le parti che decidono di credere che un certo fenomeno può essere rappresentato in un certo modo e che da quel momento in poi ci credono fermamente, senza metterlo più in discussione.
Un buon esempio è l’Auditel, la stima degli spettatori televisivi: senza entrare nel dettaglio del suo funzionamento (che certo ha basi metodologiche serie) i decisori del mercato pubblicitario (chi compra e chi vende) hanno deciso di credere che le persone che guardano un determinato programma guarderanno anche la pubblicità che lo interrompe. Sappiamo tutti che non è così: anche chi fa parte del sistema probabilmente cambia canale o va a bere quando arriva la pubblicità, eppure si è deciso che questo è un sistema serio su cui basare gli scambi di un mercato ricchissimo. Non solo il costo di uno spot televisivo viene basato su una stima, ma anche il risultato di una campagna pubblicitaria televisiva viene calcolato sulla base dei risultati che possono essere ricondotti a quella campagna, quindi un’altra stima.
Quando succede qualcosa di inaspettato e di non prevedibile, per esempio il successo di un prodotto che non è stato minimamente pubblicizzato, nell’ambiente ci si ricorda del passaparola e si “scopre” che funziona meglio della pubblicità.
Per esserne sicuri, però, le stesse persone che hanno deciso di credere che solo loro cambiano canale quando c’è la pubblicità preferiscono supportare questa scoperta con dei numeri: ecco quindi delle utilissime ricerche che ci rivelano strabilianti verità, tipo che “il 92% delle persone crede di più ai loro amici che alla pubblicità”, laddove la vera notizia è “l’8% delle persone credono di più alla pubblicità che ai loro amici”.
Lo stesso sistema che ha deciso di credere che chi sta guardando Lost si sciroppa anche i 35 spot di cui è infarcito, quando si arriva ai fenomeni sociali non pianificabili e controllabili ha improvvisamente bisogno di certezze, non di stime. E quando le certezze rivelano numeri se non piccoli, piccolissimi, quali sono quelli tipici del passaparola in rete, non è più interessato alle stime dei risultati, ma vuole delle certezze: vuole poter misurare, prima e dopo. Non importa se dalle chiacchiere di 3 persone si vendono 300.000 copie di un libro, non importa se è meglio parlare con 10 opinion leader appassionati di quel prodotto piuttosto che mostrare immagini in movimento a 100.000 persone interessate ad altro, difficilissimo avere il buon senso di Joshua Porter , tradotto da Gaspar Torriero che sintetizza così il funzionamento del “viral marketing”:
se il tuo prodotto è cattivo, ne risulterà una conversazione su quanto è cattivo;
se è buono, una conversazione su quanto è buono.
I signori della pubblicità vogliono sapere come si fa, quanto costa, quante persone raggiungi e come reagiranno e come dovranno gestire le loro reazioni. Non si preoccupano – mai – di quanto è buono il loro prodotto.
Mafe de Baggis
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