Lavoro in, con e per editori dal 2000, con il compito – a vario titolo – di aiutarli a gestire la transizione al digitale: sono undici anni ed è come se l’editoria digitale dovesse ancora essere progettata e poi realizzata, invece che metabolizzata e assorbita nei processi lavorativi in corso. Anni fa un cliente mi convocò per parlare di “editoria digitale” e io scoprii che esisteva, nel senso che per me quello che veniva pubblicato in rete lo era già, e invece no, serviva un progetto apposta e sembrava fosse anche assai difficile farlo.
Fiumi di parole sono state spese sulla diatriba blogger/giornalisti, decine di giorni/uomo sono stati impiegati per analizzare l’annoso problema della diminuzione del fatturato pubblicitario tradizionale non bilanciato dall’aumento del fatturato pubblicitario digitale, ore e ore di formazione erogate (anche da me) per propinare feisbuk-tuitter-socialmidia a giornalisti perfettamente capaci di capirli da soli (se solo i loro datori di lavoro gli spiegassero che cosa farne). Libri su libri, articoli su articoli, convegni su convegni, organigrammi su organigrammi, sistemi editoriali inutilizzabili, radicali cambi di grafica al primo calo delle pageview , costo del lavoro in crescita per gli assunti e in picchiata per i precari.
Io mi sono fatta un’idea, la sintetizzavo l’altro giorno su Twitter: che gli editori sono come quelli che vogliono dimagrire mangiando gli zuccheri. Tranne quei casi fortunati (che affolleranno i commenti) più o meno ormai lo sappiamo: se vuoi dimagrire devi vivere a pesce, carne bianca, verdura e poca frutta. Tutto il resto te lo dimentichi, per un po’ almeno: se mangi così stai assai bene, non soffri la fame e dimagrisci. Se per te senza brioche e pasta al sugo non è vita, non dimagrisci. È semplice.
Per l’editoria è la stessa cosa: capire che cosa fare è molto più semplice di come ce lo raccontiamo, il problema è che nessuno sembra avere intenzione di farlo. Non serve il mega progetto, la ristrutturazione totale globale, il ridisegno dei flussi, il riorientamento dei processi, la ridefinizione degli ambiti. Che tu faccia libri, news o approfondimenti, se lo sai fare saprai farlo anche incorporando nel tuo mestiere i nuovi strumenti e le nuove pratiche del digitale. Certo, è impegnativo, certo, tocca studiare, rimettersi a imparare, modificare molte abitudini, però non è che ieri facevi il giornalista e adesso devi pilotare lo Shuttle. Dettare un pezzo al telefono è molto, ma molto più difficile che mettere le tag o scrivere uno strillo adatto a Twitter. Ti hanno detto che “scrivere per il web” è diverso? Beh, è vero, ma non poi così tanto, non esageriamo.
Come fare è semplice, farlo davvero è un po’ diverso, ma solo perché le soluzioni – note a tutti – non ci piacciono granché: investire risorse per i contenuti (non solo per la tecnologia e per il marketing), lavorare bene sugli archivi, destinare al web le stesse risorse o risorse di pari valore. Lo dice molto meglio di me Barbara Sgarzi, con il suo Pentalogo per chi lavora sul web :
1. Pagate chi lavora per voi
2. Non riempite le redazioni online di dinosauri
3. Non soffocate il lettore
4. Abbattete gli steccati
5. Dialogate, dentro e fuori
Io aggiungo solo, per quello che conosco meglio, che anche i famigerati “modelli di business” non è che siano poi così diversi. I fatturati pubblicitari digitali sono la Cenerentola di quelli dei media tradizionali perché devono mettersi le scarpe delle sorellastre e sono scarpe troppo grandi, quelle che obbligano ai grandi numeri. Online paga avere una strategia di traffico che metta insieme i grandi numeri e le nicchie (la coda lunga non l’ha inventata Chris Anderson). Le nicchie, sì, proprio quelle che le concessionarie non riescono a vendere (o almeno così dicono).
Ho lavorato con diversi editori sul problema di “vendere il web” e alla fine la diagnosi quasi per tutti è stata che loro vendono ai centri media e alle agenzie di pubblicità mentre il web è molto più comprensibile dalle agenzie di comunicazione e di relazioni pubbliche. Il risultato è che chi cerca audience ristrette e profilate non sa come comprarle, chi ha audience ristrette e profilate non sa a chi venderle (e rinuncia o è costretto ad annacquarle per trasformarle in prodotti di massa più digeribili dai centri media).
Non è che l’editoria digitale non abbia opportunità di remunerazione, e neanche che queste siano particolarmente complesse da capire o da realizzare: è solo che è il lavoro di “vendita di spazi pubblicitari” a dover cambiare radicalmente e trasformarsi in consulenza, non quello dell’editore e tantomeno quello del giornalista ( pesaculismi a parte). Parafrasando il vecchio detto, fare progetti è meglio che lavorare, ma almeno non prendiamoci in giro: il problema non è “che cosa sarà di noi”, ma quanta fatica tocca fare per sfangarla. Proprio come per dimagrire.
Mafe de Baggis
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