Milano – È dai tempi di The Net , film abbastanza tremendo con Sandra Bullock, che si parla di furto di identità come uno dei rischi della rete. Negli Stati Uniti le riviste di attualità sono piene di pubblicità di LifeLock , un servizio di monitoraggio dell’uso che viene fatto dei tuoi dati identificativi, del numero di carta di credito, del codice fiscale e simili. È vero: mandare a spasso versioni digitali di noi stessi sicuramente implica un aumento del rischio che qualcun altro si impadronisca dei “numeri” che fanno credere a terzi di avere a che fare con noi.
Come spesso accade, però, il furto d’identità più frequente è perfettamente legale e avviene quando un servizio online ci blinda al suo interno prendendo come ostaggio i nostri contenuti, la nostra storia, la nostra memoria digitale. In un ambiente basato su XML e con soluzioni già disponibili come OpenId, promosse adesso da organizzazioni come Dataportability , -la necessità di creare ogni volta un account e di ricostruire la nostra storia nasce solo per la precisa volontà dei diversi siti di attuare un lock-in nei nostri confronti, a volte morbido, a volte pesantissimo. Poter esportare il mio account e l’elenco dei miei acquisti da Amazon a Play.com sarebbe una gran comodità ma anche un danno economico per Amazon (o un ingiusto vantaggio per Play). Di chi sono quei dati? Miei o del servizio che mi ha dato gli strumenti per tenerne traccia?
Un paio di settimane fa Robert Scoble , il blogger diventato famoso per aver raccontato Microsoft dall’interno, è stato punito da Facebook per avere cercato con uno script di esportare il proprio profilo (completo di dati e di lista dei contatti) in un altro social network (Plaxo), senza dover rifare tutto da capo come ogni volta. Era suo diritto violare le condizioni di servizio di Facebook? La nostra memoria digitale ha un valore commerciale per i siti a cui la affidiamo, in cambio della quale riceviamo un servizio: è nostro diritto sfruttare le soluzioni tecnologiche che permettono di condividere con altri siti questa memoria? Basta che qualcuno decida di farlo, e se questo qualcuno si chiama Google, che con Open Social dichiara le sue intenzioni fin dal nome, agli altri non resta che adeguarsi (pian piano, certo).
È uno di quei rari casi in cui i nostri interessi, gli interessi commerciali e la tecnologia sembrano poter coincidere: Google (e il suo Open Social), Facebook e Plaxo hanno annunciato il loro ingresso nel gruppo di lavoro di DataPortability . La fattibilità tecnologica della portabilità dei dati personali è solo questione di “mettere i pezzi insieme”, come recita il comunicato dell’annuncio: la sostenibilità economica della decisione di condividere i propri database utenti è ancora tutta da vedere.
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