Settimana scorsa a cena un mio amico minacciava di “suicidare il suo account”; l’altro gli faceva da sponda dicendo “non sono su Facebook perché è triste che facciamo tutti le stesse cose”. Io gli ho risposto “sì, tipo mangiare, lavarci i denti, fare l’amore e andare al lavoro”. Cercavo un collega perso di vista da tempo, non ho neanche aperto l’elenco del telefono: era più facile trovarlo in rete. È arrivato il momento di cogliere l’enorme differenza tra la presenza in un social network e la sua frequentazione: la prima è una comodità per te e per gli altri, la seconda una scelta da rinnovare ogni giorno. La partecipazione assidua è per pochi, la presenza piano piano diventerà una necessità per tutti (per le aziende è già un obbligo).
In questo contesto una domanda che mi fa insieme imbestialire e ghignare, che sia a cena o in un sondaggio, è “quanto tempo al giorno dedichi a Internet”. È come chiedere “quanto tempo al giorno usi la corrente elettrica” o meglio ancora “quanto tempo al giorno dedichi alle persone che ami”. La risposta giusta è “tutto il tempo da sveglia”, non perché sia ossessionata da Internet, dalla luce elettrica o da chi amo (forse da chi amo sì), ma perché sono tre attività pervasive che vanno avanti in parallelo a tutto il resto, anche se molto spesso in secondo piano.
È per questo che quando qualcuno mi chiede un solo consiglio semplice e chiaro per le aziende che vogliono iniziare a usare Internet in modo intelligente la mia risposta è di solito sibillina: “Usate Internet”. Non è una presa in giro: è che a differenza di moltissime altre forme di comunicazione Internet offre un’esperienza immersiva che difficilmente può essere capita senza provarlo sulla propria pelle, e non in modo strumentale o finalizzato, ma proprio come tutti gli altri, per comodità, per piacere, perché dopo un po’ diventa parte della tua vita e neanche te ne accorgi. A volte questo succede letteralmente: mi trovo davanti persone che pensano di non (saper) usare Internet e invece lo fanno da anni (magari per trovare compagnia da non pagare durante i viaggi di lavoro). Una cosa è l’uso, un’altra la consapevolezza del senso dello strumento che si usa: un’azienda può davvero dirsi in rete solo quando tutti la usano senza più accorgersene all’interno della propria giornata lavorativa e i decisori hanno anche la consapevolezza necessaria per prendere decisioni informate.
È anche per questo che ho superato il mio naturale fastidio per tutte le nuove etichette e sono abbastanza fiduciosa che la nuova parola magica Enterprise 2.0 , considerata dagli analisti di Forrester il settore più in forte crescita dei prossimi anni, potrebbe aiutare a colmare il digital divide che affligge i decisori aziendali. La definizione di Enterprise 2.0 che preferisco recita “l’uso del social software all’interno delle aziende”. Su un pianeta normale questo vorrebbe dire che le persone che lavorano in azienda iniziano a usare Flickr o GTalk se e quando gli torna utile; sul pianeta parallelo della complicazione cose semplici questo vuol dire che ogni azienda deve a) capire b) spiegare c) mettere una serie di vincoli d) customizzare in base ai propri vincoli e) imparare a usare f) insegnare a usare g) controllare h) modificare (repeat).
Internet non è semplicemente un canale di comunicazione: è un modo diverso per fare la maggior parte delle cose che facevamo prima e finché rimane confinato al marketing non cambierà mai nulla: se Enterprise 2.0 vuol dire un magazzino gestito con tag e foslksonomy o un customer care capace di condividere conoscenza, ben venga pure l’ennesima buzzword.
Se l’unica strada perché Internet entri seriamente in azienda è tortuosa, almeno è una strada: l’importante è che il social software che si usa dentro rispetti gli stessi standard e le stesse logiche di quello fuori, altrimenti siamo punto e daccapo.
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