In una galassia lontano lontana, alla fine dello scorso millennio, lavoravo in Virgilio con la responsabilità di curare e lanciare un
servizio chiamato People , che ai tempi era una piattaforma di creazione di mailing list basata su eGroups . Per chi ancora non c’era, le mailing list sono una specie di cugina più grande dei gruppi di Facebook ed esattamente come per Facebook il software che le fa funzionare è quasi sempre (quasi) scritto in inglese da un programmatore, che non è tenuto a preoccuparsi dell’eleganza e dell’efficacia del linguaggio usato.
Uno dei miei compiti era per l’appunto la localizzazione del linguaggio, un lavoro di per sé non semplice (come ben noto è difficile replicare in italiano la precisione dell’inglese tecnico) e ulteriormente complicato dal fatto che uno dei programmatori americani – da me ribattezzato Giacomino – credeva di sapere l’italiano. In sé niente di grave, se non fosse per il fatto che, complici i fusi orari, quando la mattina arrivavo in ufficio trovavo tutto il mio lavoro del giorno prima completamente stravolto, con l’italiano strampalato tipico delle traduzioni fatte da qualcuno poco pratico di una lingua ma convinto di conoscerla.
Mi è tornato in mente Giacomino stamattina quando, testando una funzionalità di Facebook in italiano, sono stata accolta dal messaggio di conferma “Grazie per aver chiesto la domanda ai tuoi amici” e ho immediatamente rimesso Facebook in inglese ridendo e piangendo insieme. Ora, non so quanti di voi usino le versioni tradotte dei software: io se appena posso lo evito, un po’ per abitudine (quando ho iniziato a usarli molti software erano disponibili solo in versione originale) ma soprattutto per rispetto nei confronti della mia lingua, che faccio fatica a vedere così stuprata.
Quando parliamo di come cambia il linguaggio online tendiamo a vedere solo le k dei bimbominkia , la passione folle per i puntini di sospensione nei blog personali e le abbreviazioni esasperate tipiche di chat e SMS. Il vero cambiamento da temere però per me è l’involuzione del linguaggio usato in azienda e nei software, un linguaggio parallelo, talmente lontano dall’italiano corrente (per non dire corretto) da poter essere considerato quasi un dialetto, anzi, un pidgin .
Degli orrori del gergo aziendale si è scritto molto e parlarne ancora è un po’ come sparare sulla croce rossa: più raramente ho sentito prendere in considerazione l’importanza, per la salute di una lingua, del linguaggio usato per interagire con un software, online, offline, al Bancomat, alle macchinette automatiche. Possiamo considerarlo un linguaggio simile a quello della burocrazia, ma ahimè molto più pervasivo, per cui se possiamo sorridere dell’obliteratrice e della complanare senza usarli, nel linguaggio quotidiano rischiamo invece di farci contagiare da un dizionario fatto di sottoscrizioni (invece di iscrizioni), quotazioni (invece di citazioni), di domande chieste e di Complimenti per la Registrazione.
È un problema? La lingua evolve e cambia, è vero, cercare di fermarla è follia, ma questo cambiamento è di una natura un po’ diversa. Le k possono non piacere, ma non complicano la reciproca comprensione: l’uso o l’abuso di anglicismi (soprattutto se “falsi amici”), neologismi o parole usate con significati diversi da quelli originali rendono invece a volte quasi impossibile capirsi, soprattutto se fuori contesto e con scarsa consapevolezza. Lo vediamo tutti i giorni parlando di community e social network come se fossero solo ed esclusivamente parte del mondo digitale, quando sono invece esperienze tipiche della vita concreta e quotidiana di ciascuno di noi che il digitale semmai aiuta a visualizzare.
Franzen nel suo articolo “Liking is for cowards. Go for what hurts” ringrazia ironicamente Facebook per aver trasformato la parola like da pensiero ad azione: quello che mi sento di aggiungere è che nel lavoro quotidiano scopri che molte persone non sono in grado di trasformare il pensiero in parola scritta neanche per le due righe necessarie a spostare una riunione, mentre riescono più facilmente a compiere un gesto come cliccare su un link che la materializza o in genere far eseguire un comando a un software.
Riflettere sulla qualità del linguaggio che usiamo per interagire con un software non è un vezzo stilistico, ma una preoccupazione concreta per evitare una vera e propria Babele in cui il significato delle parole che usiamo varia a seconda del software a cui siamo abituati, ciallengiandoci molto.
Mafe de Baggis
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