Tra i tanti lavori improbabili resi possibili dai cambiamenti in corso, aggravati dalla crisi, c’è quello di chi come me passa buona parte del suo tempo a cercare di salvare la vita degli editori aiutandoli a capire cosa cambia con i media digitali: io mi sono specializzata in periodici, soprattutto testate femminili, un mio amico ha moltissima esperienza con i quotidiani locali.
Questo amico mi ha rivelato – con una certa tristezza – che la grossa speranza dei quotidiani minori è che una testata importante, tipo il Corriere della Sera o Repubblica , abbia il coraggio di fare un aumento secco di 20 o 30 centesimi a copia (cartacea), permettendo all’intero mercato di adeguarsi e di aumentare di botto il fatturato salvando il salvabile. È lo stesso tipo di ragionamento che porta Time a pubblicare cover story come “How to save Your Newspaper” ritirando fuori i micropagamenti come strategia di sopravvivenza per le testate online, troppo costose per essere finanziate dalla semplice pubblicità.
Due esempi diversi di come l’industria dell’informazione professionale sia ancora molto lontana dall’aver capito quanto l’idea di pagare per un contenuto è ormai aliena per le nuove generazioni, e per chi è abituato a informarsi soprattutto online (e quindi che io e il mio amico non stiamo facendo il nostro lavoro, o forse che è una Mission Impossibile ).
Che sia carta o online, non conta: le informazioni vogliono essere libere, come è stato detto per la prima volta già nel 1984, e se sono libere devono esserlo anche nel senso di gratis. Far pagare di più a sempre meno persone non è una strategia intelligente: secondo Steve Outing, che suggerisce di “Dimenticare i micropagamenti”, è un’idea che dovrebbe scatenare davvero il panico da stipendio nelle redazioni online, perché “Non ha funzionato. Non funziona. È contrario alla natura di Internet.”
Paradossalmente secondo me siamo sempre meno disposti a pagare per le informazioni perché attribuiamo loro un’importanza maggiore: in rete è più facile confrontare più fonti, verificare la loro qualità, affezionarsi a una voce, a un autore, a una testata. Pagare mercifica la relazione: vale per la musica, per i testi, per i film. Più ci tengo meno sono disposto a pagare per la fruzione.
Questo significa la morte per fame dei giornalisti, dei cantanti, dei registi o degli attori? Molto probabilmente no, perché il modello che si sta imponendo per la musica e potrebbe funzionare anche per i contenuti è quello dell’abbonamento o simili, meglio se con la possibilità di decidere chi finanziare di volta in volta.
Finanziare è meglio che pagare: finanziare vuol dire contribuire, assomiglia più all’economia del dono che a quello dello scambio merce contro moneta, riequilibra il rapporto e lo rende più paritario. Il passo avanti di sistemi già validi come Safari di ÒReilly (ti abboni e leggi tutti i libri che vuoi) o di Rhapsody (con un pagamento mensile ascolti tutta la musica che vuoi) è proprio la possibilità di pagare un biglietto di ingresso e poi premiare gli autori che preferisci, decidendo chi verrà pagato e chi no.
Steve Outing cita per esempio Kachingle , una piattaforma pensata per i blog che permette di chiedere ai lettori di premiarli quando sono soddisfatti. Non si sa se funzionerà, ma questa strada a oggi sembra la migliore praticabile per la sopravvivenza dell’editoria professionale. Più che un abbonamento (freddo), un dono (caldo): dono che diventa un gesto economico, ma anche erotico, a testimonianza di un atto di piacere (anonimamente) ricambiato.
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