La settimana scorsa la giornalista Sarah Lacy , nota per le sue “interviste confidenziali”, ha passato un’oretta sul palco del South by Southwest Interactive Festival di Austin con Mark Zuckerberg , il fondatore e amministratore delegato di Facebook.
L’intervista non è piaciuta al pubblico del SXSW, pubblico di creativi, progettisti, innovatori: Zuckerberg di per sé non è molto simpatico o ispiratore, la chiacchierata non è mai decollata, non si è mai entrati nel vivo di quel che sta facendo Facebook e del suo impatto, si è restati in un generico e noioso “business chat”. Niente di strano: non tutte le interviste riescono, io ho visto Lacy intervistare Kevin Rose di Digg a Parigi e probabilmente il suo stile particolare funziona solo se dall’altra parte c’è una persona affascinante e a suo agio (com’è Rose). Quel che è interessante è come un evento tutto sommato poco significativo sia arrivato alla mia attenzione e a quella di molti altri.
Dieci anni fa in platea sarebbero aumentati i disegnini sui blocchi degli appunti, le frasi sussurrate e le risatine, ma il disagio sarebbe più o meno rimasto in sala; cinque anni fa poche ore dopo i blog di qualche partecipante sarebbero stati pieni di critiche e prese in giro, informando chi li segue e pochi altri; due anni fa il live blogging e gli scambi sui messenger avrebbero distolto l’attenzione dei partecipanti, producendo contenuti poco informativi e destrutturati, difficili da seguire da fuori; oggi il dissenso, la noia, il fastidio e il disinteresse trovano uno spazio immediato, veloce e collaborativo su Twitter .
Non tutti fanno come Mitch , che è andato a rivedersi l’intervista per capire “da dove arriva tutta questa negatività”: in moltissimi casi ormai ci fidiamo della visione del mondo costruita dalle persone che seguiamo online (che sono molte di più di quelle che possiamo seguire offline) e la stiamo sostituendo alla visione del mondo costruita dai media di massa. Usando la prospettiva sociologica di Erving Goffman possiamo dire che la scena privata (i pensieri di chi assiste a un evento) stanno passando sempre più velocemente sulla scena pubblica (la condivisione di informazione su quei pensieri). La contrazione dei tempi e la sostanziale mancanza di responsabilità tipica dell’espressione di un giudizio personale produce però spesso delle informazioni di scarso valore, magari dettate dall’umore al momento.
Quel che è sempre difficile, se sei Sarah Lacy, un’azienda, un partito politico è proprio capire quale peso attribuire a questi commenti. Sarah Lacy ha reagito piuttosto innervosita direttamente su Twitter, le aziende sempre più spesso rispondono a tono sui blog di chi li critica e in generale si moltiplicano i tentativi di ascoltare, misurare, sintetizzare questo enorme flusso che usa sempre più spesso anche le immagini e il video per esprimere pareri.
Ci sono voluti anni perché la conversazione che avviene in rete venisse presa in considerazione insieme o in alternativa alle ricerche di mercato ed è un bene che finalmente si sia preso atto dell’importanza di questi scambi spontanei. L’importante è non esagerare e non prendere questi scambi come un oracolo, come se l’interazione tra migliaia di persone che esprimono liberamente il loro parere – magari cazzeggiando annoiati a una conferenza – producesse un verdetto certo, monolitico, inoppugnabile.
Mafe de Baggis
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