Milano – L’altro giorno chiacchieravo con Marco Zamperini , CTO di Value Team, nonché blogger appassionato, che mi raccontava “Mafe, continuo a ricevere richieste su diversi social network da candidati alle elezioni che vogliono “farmi amico”: a me sta anche bene, ma mi infastidisce immaginare che dietro quell’account ci sia un portavoce, uno stagista, qualcun altro”.
Nelle polemiche sulla presenza delle aziende in rete, uno degli argomenti ricorrenti è che non si può avere una relazione umana con un brand, a meno che non sia rappresentato da un essere umano con un nome e un comportamento non stereotipato.
Il ragionamento fila alla perfezione: una cosa è dire “ciao Punto Informatico come stai?”, un’altra dire “ehi, Mafe di Punto Informatico, vattene all’inferno”. Una cosa è accettare tra i propri contatti Fausto Bertinotti o Bruno Tabacci, un’altra avere tra i propri contatti un portaborse che ne fa le veci.
Come insegna il Cluetrain Manifesto la differenza però non è solo formale (altrimenti sarebbe troppo facile) ma sostanziale: se Gino di Casa della Brugola parla come una brochure di viti e bulloni può anche presentarsi come persona, ma avere a che fare con lui – in rete come offline – resta insopportabile. Ancora peggio quando si sospetta – per intuito o per pregiudizio – che la persona che rappresenta l’azienda in quel momento stia impersonando una parte, nonostante parli, si comporti e reagisca come un essere umano. È facile dire che le aziende siano accettabili online quando parlando usando “la voce umana”, meno facile accettare che la voce umana, come tutto, si possa progettare a tavolino.
Questo è particolarmente vero quando il brand coincide con una persona, in particolare quando il brand-persona è un uomo politico. Come molti di voi sapranno – basta vedere una puntata di 24 o di West Wing – la maggior parte dei discorsi pubblici di un uomo politico sono scritti da un professionista pagato per farlo, il ghostwriter: la voce è umana, la relazione tra il personaggio e i contenuti un po’ meno, almeno in apparenza. Ho provato ad approfondire l’argomento con un ghostwriter, che mi ha spiegato che:
“Di per sé avere un portavoce, parlare per interposta persona non rappresenterebbe un problema. Non si tratta di un problema di alterità, ma di empatia. Il senso del ghostwriting è tutto nell’immedesimazione, nella fedeltà alla voce originaria.”
Per esempio, se un politico chiede aiuto a un professionista per rispondere a una delle domande poste dai cittadini su 10 domande del Sole 24 Ore , il punto non è chi c’è dietro, ma quanto la risposta è effettivamente coerente con la personalità del politico che risponde. Possiamo pensare quindi che il problema non è che difficilmente Silvio Berlusconi in persona possa aver scritto questo messaggio su Facebook :
“Ciao i miei amici li ringrazio per il vostro supporto.
Hello my friends I thank you for your support”
quanto la sua distanza dal modo di comunicare di Berlusconi, spiegabile solo con la difficoltà di movimento negli ambienti digitali tipica di chi li approccia solo a scopi strumentali. Da questo punto di vista che sia effettivamente Berlusconi o uno che passava di lì poco cambia: la relazione è comunque falsata, che ci si firmi come azienda, con un nick, col proprio nome o col nome del gatto. Come ci spiega ancora il nostro amico ghostwriter:
“Il problema della politica nel social networking è un problema di interpretazione e quindi, va da sé, di scopo. Se un politico decide di utilizzare un social network ha due possibilità:
O capisce di cosa si sta parlando, oppure non lo capisce.
Se capisce il contesto dei social media, il suo girare ludicamente a vuoto in un’orbita di senso, non potrà che capire che alla base di ogni suo possibile esprimersi in ambienti digitali c’è necessariamente autenticità, un essere se stessi qui e ora, il piacere di un mettersi in gioco nell’improbabilità di una community costantemente avvitata in un’orbita di senso in divenire come esito possibile.
Se invece nel social networking si vede semplicemente l’ennesimo canale da colonizzare, allora si entra in una sfera strumentale. Esserci per esserci, allora basterà pagare uno stagista di vedetta, che legga e collochi il candidato nei paraggi di un qualunque consenso possibile.
In conclusione, la voce può anche non essere la tua, ma Walter Veltroni su twitter deve essere assolutamente riconoscibile come lui.
Se anche parlasse per interposta persona, la scelta deve comunque cadere su una voce affidabile, una tua voce possibile, in cui tu possa trovarti a tuo agio e tu ti possa riconoscere.
Questo anche il senso di “trovare una voce umana” nel social networking.”
In sintesi, quello che conta – forse – non è tanto chi effettivamente agisca dietro ad un “personaggio” (uomo politico o azienda) – che comunque, essendo interessato, non potrà mai essere completamente spontaneo – quanto l’interesse e l’importanza dei contenuti espressi. È un accontentarsi? Decisamente sì.
Da questo punto di vista trovo più condivisibile la scelta del Partito Democratico che, consapevole della difficoltà (dell’impossibilità?) di frequentare in prima persona gli ambienti di rete, ha scelto di usare il brand e non il nome come attore, una scelta impersonale ma più convincente:
http://twitter.com/italianuova
http://www.flickr.com/photos/pdnetwork/
Questo fermo restando che il Walter Veltroni di Twitter è più vicino all’idea del personaggio che ci siamo fatti di quanto potrebbe mai esserlo se fosse davvero lui: come dicevano gli U2, “Even better than the real thing”.
Mafe de Baggis
Maestrini per Caso
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