Ti è mai capitato di essere attaccato, insultato, offeso e magari minacciato? Non è piacevole, certo, soprattutto quando la persecuzione è ingiustificata o è difficile da evitare: telefonate anonime, inseguimenti, pettegolezzi, scenate. Online capita molto spesso di subire fastidiosi attacchi personali, anche se la natura della rete rende molto più facile far letteralmente scomparire dal proprio orizzonte chi esagera, con strumenti sia tecnologici (ignore, block, stop etc) sia di puro buon senso. Non accettare le provocazioni, è noto, fa scomparire abbastanza rapidamente i troll.
Nonostante questa relativa facilità di gestione dei disturbatori la maggior parte delle persone oggetto di attacchi personali in rete tende a reagire se provocata e soprattutto a pretendere l’aiuto dello staff dell’ambiente digitale in cui l’attacco è avvenuto. È successo di recente su Twitter: Ariel Waldman ha denunciato la mancanza di collaborazione da parte dello staff nel proteggerla da molestie subite, nonostante nelle condizioni di servizio ci si impegnasse a farlo. A peggiorare la situazione, Twitter ha anche modificato poco dopo quelle condizioni di servizio, suscitando le reazioni sdegnate di moltissimi commentatori, tra cui il rispettato web designer Jeffrey Zeldman .
Evan Williams, il fondatore di Twitter, ha reagito dicendo che la modifica delle condizioni di servizio era stata decisa ancora prima di questo incidente, proprio per evitare situazioni ambigue in cui è molto difficile capire perché due persone litigano. Nel caso di Ariel Waldman, per esempio, le molestie riportate dal punto di vista di Twitter non erano così gravi da giustificare la rimozione dell’account.
A mio parere l’errore di Twitter non è stato di aver rifiutato di mettersi in mezzo, ma al contrario di aver ingenerato l’equivoco di poter fare da paciere in caso di discussioni personali impossibili da gestire per terze persone non coinvolte dall’inizio, anche se super partes.
Succede molto spesso: dopo tanti anni di gestione di community piccole e grandi ho imparato a mie spese che quasi sempre i problemi non nascono da limitazioni della libertà, ma dalle aspettative di molti utenti di protezione e censura nei confronti di terzi. Questo succede soprattutto quando una community viene progettata senza tenere conto delle diverse sensibilità di chi la frequenterà.
Dietro ogni ambiente di community capace di autoregolamentarsi e di soddisfare le diverse esigenze delle persone che scelgono di frequentarlo, c’è un piccolo miracolo di ingegneria sociale, che può essere spontaneo e quasi inconscio o progettato a tavolino. Quando dietro una community ci sono l’istinto e la passione di un singolo o di un gruppo di amici, l’alchimia necessaria si sviluppa quasi sempre spontaneamente, senza richiedere particolari accorgimenti.
Diverso è il caso in cui invece lo stimolo iniziale proviene da persone che non saranno sempre coinvolte nella vita quotidiana della community e che quasi sicuramente avranno esigenze, bisogni e aspettative diverse da quelle dei partecipanti: diventa indispensabile creare quindi un sistema sociale che permetta ai proponenti di vivere con tranquillità la libertà degli iscritti, in una logica di indirizzo e mai di controllo.
Non è possibile pretendere responsabilità e autodisciplina quando si pretende di controllare i comportamenti degli utenti: viceversa, in una situazione di piena e totale libertà gli utenti non possano aspettarsi che il community manager faccia loro da balia e da poliziotto insieme. Twitter ha cercato di fare le due cose insieme e, per sua sfortuna, si è trovata sotto i riflettori proprio mentre stava decidendo di cambiare strada in direzione della totale autonomia dei suoi iscritti.
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