Si è soliti far riferimento alla Web Tax come a quell’imposta pensata per garantire una tassazione adeguata sui profitti generati dai giganti del mondo tecnologico e online, che spesso, in passato, hanno costruito i loro modelli di business facendo leva su un sostanziale gap normativo. Introdotta dalla legge di bilancio 2018, dopo un lungo periodo di discussioni poco proficue sul tema, segnate anche da un mancato approccio uniforme concordato a livello europeo, è stata poi rivista negli anni successivi, attraverso una serie di modifiche, l’ultima delle quali è contenuta nella manovra finanziaria per il 2025 appena sottoposta al vaglio del governo.
Quanto deciso dall’esecutivo, in estrema sintesi, rischia di abbattersi sul settore digitale nella sua interezza, senza più far distinzione tra Big Tech, PMI e startup. Lo scenario che si prospetta è preoccupante.
L’allargamento della Web Tax, niente più limiti di ricavi
A farne le spese saranno quelle realtà che fanno del Web e delle sue tecnologie una piattaforma su cui innovare, creare occupazione, generare valore. È infatti previsto un allargamento della Web Tax a tutte le aziende di un’industria che, negli ultimi anni, ha rappresentato un volano per lo sviluppo del Paese. L’ultimo report di Anitec-Assinform fa riferimento alla crescita più dinamica dell’economia, raggiungendo i 78,7 miliardi di euro nel corso del 2023, con una prospettiva di ulteriore incremento per il prossimo triennio
.
La nuova legge di bilancio stabilisce l’eliminazione dei limiti di ricavi previsti in precedenza: non inferiori a 750 milioni di euro realizzati a livello globale o a 5,5 milioni di euro nel territorio (dal sito dell’Agenzia delle Entrate). Ciò significa che interesserà ogni realtà, indipendentemente dal volume e dalla portata del business gestito.
La tassazione, spiega il Fisco, riguarda la pubblicità digitale su siti e social network, l’accesso alle piattaforme digitali, i corrispettivi percepiti dai gestori di tali piattaforme e anche la trasmissione di dati presi dagli utenti
. Insomma, dinamiche sulle quali poggia la quasi totalità dei servizi online.
Il 3% sui ricavi, non sugli utili
Uno dei passaggi più controversi, ritenuto una minaccia concreta per il futuro dell’intero settore, è quello che prevede l’applicazione di un’imposta al 3% sui ricavi generati e non sugli utili. In altre parole, la misura, se approvata in via definitiva, andrà a colpire anche le aziende che già attraversano un momento di difficoltà, comprese quelle il cui business è in passivo, non tenendo conto dei costi operativi legati all’attività. Ne abbiamo già scritto su queste pagine nei giorni scorsi, citando l’intervento di Netcomm.
Insomma, un’iniziativa concepita in origine per far sì che colossi del calibro di Google o Meta potessero contribuire all’economia dei territori nei quali offrono i loro servizi, ottenendo profitti paragonabili al PIL di alcuni paesi, rischia di finire per soffocare la crescita delle realtà imprenditoriali locali che costituiscono la linfa vitale dell’ecosistema Italia.
C’è anche la tassazione al 42% sulle criptovalute
Un altro aspetto non di secondaria importanza, anch’esso inerente alla Manovra 2025, è quello legato al possibile aumento al 42% della tassazione sulle plusvalenze generate dalle criptovalute (oggi è al 26%).
Nell’annunciare la decisione, la scorsa settimana, il vice ministro Maurizio Leo ha fatto riferimento esclusivamente a Bitcoin, ma per un eccesso di sintesi. L’incremento è studiato per colpire tutti gli asset appartenenti all’ambito della finanza decentralizzata, senza distinzione per tecnologia impiegata o in base ad altri criteri.
Per entrambe le misure, al momento ferme allo status di bozza, si attende la pubblicazione in Gazzetta Ufficiale. Il pericolo che possano abbattersi come una mannaia sullo sviluppo di un settore fondamentale, in particolare la Web Tax, è concreto, a dispetto dei proclami sull’importanza del digitale spesso giunti dagli stessi promotori della nuova imposta.