Roma – La visione politica e sociale della giustizia è fondamento di uno stato sano, l’appiattirsi infatti senza riflessione sull’uso delle leggi esistenti senza adeguarle alla situazione politico-economica presente non è altro che il segno distintivo di una civiltà cadente che si ripiega su se stessa e in generale di tutti i movimenti denominati appunto conservatori. Così come per la rivoluzione industriale e tutte quelle precedenti, è necessario riconsiderare tutte le normative relative alla luce della nuova rivoluzione informatica.
Dispiace per altro constatare come classiche giustificazioni che trovano ben poco fondamento storico, ne tanto meno nella realtà, siano sempre così diffuse e riprese.
La visione romantica del piccolo autore/inventore che diviene padrone del proprio destino grazie al diritto d’autore/brevetto industriale è appunto tale: romantica.
E’ ben noto come, se non in ben pochi casi su cui si incista la leggenda, i poveri autori e i poveri inventori rimangono sempre tali. Per darne una breve prova d’esempio basti pesare al costo di registrazione di un brevetto per un inventore, o al fatto che coi libri oggi non ci si viva (ci sono autori che hanno all’attivo decine di libri che ben sanno come non ci si viva con le royalties che ne derivano benchè le vendite non vadano poi male). Certo è facile pensare ai casi limite, ai 10 cantanti/autori nazionali che han fatto successo, o ai due/tre piccoli inventori che nel passato hanno avuto occasione di emergere grazie a questo istituto. Ma se si guarda al quadro generale si vedrà quanto la situazione sia ben più desolante e al successo di un pugno di uomini corrisponde invece un servilismo ben peggiore di quello dovuto ai vari mecenati dagli autori del passato.
Di questi abbiamo ancora traccia storica, le loro opere hanno realmente cambiato il mondo e il servilismo politico non ha certo attenuato la loro arte o la loro tecnica (ovviamente non intendo qui promuovere una società fondata sul mecenatismo).
Ad oggi invece ci troviamo con pochi grossi attori sul mercato che, di fatto, sono dei moderni mecenate i quali pero’ non garantiscono molto ai veri autori, ma ne traggono avidamente i frutti economici degradando spesso l’opera artistica per mere necessità di mercato.
Detto questo accennerei invece alla derivazione storica (vedi legislazioni veneziane del primo ‘700) di questi due diritti che renderà più esplicito il perchè la visione romantica è una mera illusione. Se infatti ci chiediamo da dove nascono sia il copyright (poi trasformatosi in diritto d’autore presso di noi) o il brevetto vediamo che il primo nasce solo nel momento in cui viene inventata la macchina a stampa, il secondo con l’invenzione delle macchine in generale.
L’invenzione della stampa a caratteri mobili permette finalmente di riprodurre in molte copie una singola opera e di trarne profitto dalla vendita delle copie. Il beneficiario dei primi abbozzi di diritto, non è l’autore ma l’editore che utilizza questa legislazione come mezzo per evitare la concorrenza, con il beneplacito delle autorità che invece ottengono in cambio la possibilità di imporre una censura efficace poichè sono ben individuabili sia la locazione sia la responsabilità di chi stampa. Ben presto questo diritto comincia finalmente a comprendere anche diritti morali per l’autore al prezzo pero’, spesso, di una complicazione delle leggi che comunque sono sempre scritte con ben presente in mente il profitto degli editori. Questa predominanza degli editori e del profitto sulla valenza artistica e dei diritti morali degli autori è più accentuata nei paesi anglosassoni che da noi.
Ma da noi non è certo inferiore ai giorni nostri.
Le varie legislazioni internazionali (Convenzione di Berna, Accordi TRIPS) seguono sempre da vicino il modello anglosassone del copyright “armonizzando” molto bene tutto cio’ che concerne il profitto, molto meno cio’ che riguarda il diritto d’autore (o meglio diritto morale dell’autore).
In un mondo in cui finalmente l’invenzione della stampa intesa in senso classico è stata superata e quindi l’autore sarebbe libero di decidere effettivamente e autonomamente della propria opera saltando gli ormai obsoleti (e nocivi) intermediari, si rivela la natura a due facce del diritto d’autore. Da una parte la teorica difesa e autonomia dell’autore, dall’altra la reale predominanza degli editori. Sono sempre gli editori, tranne che per pochi casi rari, che decidono come, quando e cosa pubblicare. I diritti degli autori sono ingabbiati in contratti prestampati che sono ovviamente a favore dell’editore (avete mai provato a pubblicare un articolo su una rivista o un libro? credete di poter scegliere voi le modalità con cui esplicitare il vostro diritto d’autore?), addirittura in Italia una organizzazione come la SIAE decide al posto degli autori come le loro opere devono essere licenziate impedendo, contro la volontà dell’autore, la libera utilizzazione delle opere.
Insomma a fronte di una legge che in teoria mette tutto nelle mani degli autori, nella pratica essa è costruita ad uso e consumo dell’intermediario (editore). E nonostante queste distorsioni, il diritto d’autore rimane ancora uno strumento giuridico ma soprattutto socio-politico che ha un suo senso di esistere e che si avvicina ad un diritto quasi naturale che è il diritto di paternità dell’opera pur mantenendo in seno un diritto puramente virtuale che è il diritto di copia. Dico virtuale perchè nella natura la limitazione alla copia esiste solo per gli oggetti materiali e non per quelli immateriali, per cui discendere un diritto giusnaturalistico per tutti gli aspetti del diritto d’autore mi sembra francamente eccessivo.
Prendiamo in considerazione il brevetto industriale. La sua storia deriva dalla pratica di rilasciare licenze legali per la costruzione soprattutto di apparati meccanici.
Come per il caso del diritto d’autore, lungi dal voler essere uno strumento a servizio degli inventori o dell’innovazione, è stato sempre uno strumento ad uso e consumo di pochi ricchi produttori dal punto di vista del profitto e dei governanti dal punto di vista del controllo.
Come per il copyright, questo strumento giuridico ha ovviamente subito una evoluzione nel tempo e un cambio di obiettivi. Attualmente il brevetto industriale comunque non comprende di fatto alcun tipo di riconoscimento autorale o di paternità fin dalla nascita e infatti si applica solo dopo costosa registrazione. Le finalità dichiarate del brevetto industriale sono le seguenti: promozione dell’innovazione attraverso la concessione di un monopolio commerciale limitato che stimoli la produzione e la diffusione delle innovazioni.
Di qui la mia personale considerazione che anche questo diritto nulla ha a che vedere con diritti di derivazione naturale, ma che sia un semplice strumento politico-economico e tale dovrebbe rimanere. La distorsione di mercato che esso produce attraverso il monopolio è giustificata solo nei casi in cui questo effettivamente porti maggiori benefici alla società nel lungo termine rendendo sopportabili i temporanei problemi che esso introduce.
Quindi benchè sia comprensibile e condivisibile l’estensione del diritto d’autore ad altri generi in cui è importante la componente autorale e artistica come in parte per il software (anche se questo è spesso un caso limite), molto meno automatica e comprensibile è l’estensione dell’istituto del brevetto ad altri campi economici prima che ne sia provata l’effettiva efficacia di promozione dell’innovazione e che i vantaggi a lungo termine non siano sbilanciati verso il basso rispetto agli svantaggi a breve.
Particolarmente nel campo del software (ma dell’informazione nel suo insieme) i brevetti (così come sono rilasciati e regolati attualmente) non sono certo uno strumento che possa raggiungere alcuno dei risultati che ne sarebbero fondamento, lasciandoci solo con gli svantaggi a breve e lungo termine. Svantaggi per tutto il settore, ma naturalmente vantaggi economici per pochi potenti.
E’ molto sconfortante vedere respingere gli argomenti fondanti di una disciplina giuridica in modo così semplicistico, spero sia dovuto al fatto che spesso nella specializzazione ci si dimentichi poi di dare un’occhiata al quadro generale che è poi quello che conta.
Ben noto è infatti che la common law entra sempre più prepotentemente nei nostri ordinamenti (non è un affermazione giuridica ma sostanziale) tradotta dai vari trattati internazionali a cui siamo costretti ad aderire volenti o nolenti (e siglati da governi spesso senza l’esplicita approvazione dei parlamenti in una situazione abbastanza anti-democratica). Altrettanto noto, agli esperti del settore ma anche a chiunque volesse dedicare qualche ora di tempo per studiare la materia, è che il brevetto industriale applicato al software, agli algoritmi e ai metodi commerciali si traduce in modo estremamente semplice in pratica in una brevettazione delle idee. E’ facile fare sofismi per cui il fatto che qualsiasi uso di una idea se monopolizzato non significa che l’idea stessa lo sia, ma questo rimane appunto una elucubrazione mentale. All’atto pratico l’idea è monopolizzata allo stesso modo in cui dare il monopolio dell’uso del colore rosso ad un soggetto privato, benchè non costituisca una monopolizzazione dell’idea in se di rosso ne costituisce una monopolizzazione di fatto agli atti pratici indistinguibile.
Il nostro ordinamento è ormai in balia delle leggi e dei trattati internazionali che vengono siglati a velocità impressionante dai nostri cari governanti. Meglio guardare in avanti perchè lo sviluppo di certe legislazioni in alcuni paesi o in alcuni organismi internazionali ci riguardano ormai piuttosto direttamente e vengono puntualmente importate da noi dopo poco tempo. Questione di lungimiranza insomma.
Simo Sorce
intervento apparso sulla mailing list Diritto@SoftwareLibero.it
Nota dell’autore:
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