Chi svolge ulteriori attività durante la guida ha una probabilità più alta di commettere errori, in termini tutt’altro che trascurabili : è quanto alcuni ricercatori hanno voluto confermare scientificamente, servendosi di una macchina per risonanza magnetica e di un simulatore di guida, con i quali hanno sottoposto a test un campione di persone.
Fare qualcos’altro mentre si guida è, d’altronde, una circostanza ritenuta rischiosa da molto tempo : già il neurologo Marcel Just e i suoi colleghi della Carnegie Mellon University sostengono che il semplice parlare con qualcuno mentre si guida mette a dura prova le capacità intellettive necessarie alla conduzione sicura di un’automobile, eccedendo quello che gli scienziati definiscono un limite biologico .
L’osservazione emerge tenendo conto che si svolgono due attività apprese in modi e tempi diversi della propria esistenza: parlare è qualcosa di automatico e fa parte di quei comportamenti affidati ad un settore della mente formato sin dalla nascita. Al contrario, l’atto del guidare è costituito da una serie di azioni apprese in età più avanzata e richiede, rispetto al parlare, un’attività cerebrale più intensa, acuta e, soprattutto, ad ampia copertura spazio-temporale.
La novità offerta dallo studio, presentato su Brain Research , consiste nel fatto che “ora disponiamo di un riscontro biologico su come il multitasking influisce sull’attività di guida”, spiega Just. Che aggiunge al panorama delle azioni esaminate l’ascolto della radio, la conversazione telefonica, mangiare o bere e controllare bambini o animali.
Lo studio evidenzia un maggior rischio in specifica relazione all’impiego di un cellulare: conversare al telefono, secondo il luminare, richiede ad esempio un’attenzione costante tesa al non apparire ineducati o scortesi, oppure ad evitare di insultare un interlocutore fisicamente non presente. Al contrario, un passeggero fisicamente presente è capace di interrompere la propria conversazione se, al pari del guidatore, avverte la sirena di un’ambulanza e asseconda, dunque, la necessità di attenzione assoluta in chi guida.
Su queste osservazioni concorda lo David Strayer dell’ Università dello Utah , che con i suoi colleghi ha voluto stimare in modo scientifico l’impatto delle distrazioni. Imponendo nel test l’impiego contemporaneo alla guida di cellulari – sia tenuti in mano che con viva voce – il team ha studiato un campione di 29 adulti tra i 18 e i 25 anni , ciascuno dei quali è stato alloggiato in uno speciale scanner a risonanza magnetica , equipaggiato con uno schermo sul quale si svolge una simulazione di guida.
Il team ha così potuto monitorare ogni variazione di flusso di sangue nel cervello e catalogare ogni variazione dell’attenzione, della velocità tenuta e delle capacità complessive di guida.
Benché i partecipanti risultassero abbastanza infastiditi dal rumore prodotto dallo scanner a risonanza magnetica, l’auto “virtuale” – in assenza di altre sollecitazioni cerebrali – ha mantenuto velocità costante e moderata, seguendo un percorso lineare e privo di intersezioni, mentre dalle rilevazioni è risultata un’attività cerebrale che interessa aree nella zona posteriore del cervello, normalmente deputate alla percezione spaziale.
In una seconda prova, i partecipanti hanno “guidato” con una sola mano, mentre ascoltavano frasi delle quali dovevano individuare se affermavano cose vere o false e comunicare il risultato premendo un tasto con l’altra mano. Ne è emerso che le frasi sono state individuate quasi tutte correttamente ma l’attività cerebrale è risultata spostata nell’area centrale, necessaria alla comprensione del linguaggio, sottraendo il 37 per cento di attività a quella posteriore.
Durante questo secondo test i volontari hanno in media “sbagliato strada” 13 volte o condotto il veicolo fuori carreggiata, in confronto al test precedente dove ciò è accaduto in media 9 volte .
Secondo Just, ascoltare la radio o indicazioni “parlate” di direzione – è il caso dei “navigatori” GPS – potrebbe avere effetti simili. “Il multitasking (in chi guida, ndR) mette a dura prova il cervello”, ha concluso il ricercatore.
Marco Valerio Principato