Sono passati diversi anni da quando Ippolita insisteva sulla necessità di distinguere l’apertura al “libero mercato” propugnata dai guru dell’open source economy dalle libertà che il movimento del software libero continua a porre a fondamento della propria visione dei mondi digitali. ” Il Software libero è una questione di libertà, non di prezzo “: l’open source si occupa esclusivamente di definire, in una prospettiva totalmente interna alle logiche di mercato, quali siano le modalità migliori per diffondere un prodotto secondo criteri open, cioè aperti. La giocosa attitudine hacker della condivisione fra pari veniva cooptata in una logica di lavoro e sfruttamento volta al profitto e non al benessere, sterilizzandone la potenzialità rivoluzionaria vissuta e individuata da Richard Stallman: ” Freedom 3: Freedom to contribute to the community “.
Muovendosi nella stessa ottica, Ippolita ha analizzato Google , un tentativo chiaramente egemonico di “organizzare tutta la conoscenza del mondo”. La logica open, coniugata alla filosofia dell’eccellenza accademica californiana, trovava nel motto ” Don’t be evil ” la scusa per lasciarsi cooptare al servizio del capitalismo dell’abbondanza, del turbocapitalismo illusorio della crescita illimitata. La favola è che more, bigger, faster sia sempre meglio. Tomorrow is another day , e sarà un giorno migliore, perché in sottofondo cova la fede nel miraggio incarnato dal bottone “mi sento fortunato”: una tecnica per definizione buona, figlia di una ricerca scientifica disinteressata, soddisferà tutti i nostri bisogni e desideri, immediatamente e senza sforzo, con un semplice click del mouse.
Purtroppo, questa pretesa di totalitarismo informazionale è meno ridicola di quanto potrebbe apparire. Appurato che non c’è più nulla da produrre, e soprattutto che la crescita illimitata è una chimera anche nel mondo digitale, la rincorsa al prossimo inutile gadget luccicante e rigorosamente touch screen potrebbe vacillare, la crisi di crescita dovrebbe essere dietro l’angolo.
Un minimo di consapevolezza dovrebbe soffiare sul nostro mondo esausto: invece di crescere correndo verso il baratro con le cuffie a tutto volume potremmo cominciare a guardarci intorno, guardarci in faccia, parlarci, scambiarci ciò di cui abbiamo bisogno, immaginare e costruire insieme qualcosa di sensato.
Messa in piedi questa gigantesca macchina tecnologica costituita di datacenter, di cervelli di prim’ordine e di codici open prontamente rinchiusi da NDA (Non-Disclosures Agreement) e simili, bisognava pur riempirla di qualcosa. Di qualsiasi cosa. Possibilmente spendendo il meno possibile o, meglio ancora, gratis. La produzione industriale del nulla sotto vuoto spinto doveva crescere, a costo zero e con profitti favolosi per i soliti noti, ma come?
La rete ormai era gettata. Piano piano, le connessioni a banda larga si sono fatte meno asimmetriche (soprattutto grazie agli investimenti e agli incentivi in perdita del settore pubblico, per “connettere” e colmare il “digital divide”…), le tariffe sono scese (ma rimangono ingiustificabilmente alte), la capacità di upload è aumentata. Ed ecco palesarsi la soluzione a tutti i problemi: riversare online i contenuti degli utenti . Quello che hanno sui loro computer, telefoni cellulari, apparecchi fotografici ecc. Ecco il frutto maturo dell’apertura al “libero mercato”: la possibilità di pubblicare per tutti . E il bello, per l’ideologia della crescita illimitata, è che il margine è enorme, il processo di “webbizzazione” è iniziato da poco e le prospettive sono favolose.
Infatti per ora si tratta perlopiù di metadati (tag, profilazione ecc.), la “nuvola” del cloud computing può crescere di molti ordini di grandezza, visto che gli strumenti per gestire i documenti online (Gdocs, Facebook Doc con Microsoft Fuselabs ecc.) sono ancora poco utilizzati. Una delle più efficaci armi di distrazione di massa mai messe a punto: dispensa gratificazione presso gli utenti dei vari servizi cosiddetti “web 2.0”, che non vedono l’ora di riversarsi nel grande mare nostrum dei social network (e perché mai dovrebbe essere “nostro”, se sta a casa di qualcun altro: Facebook, Flickr, Twitter, Netlog, YouTube, o altri?).
Siamo contenti e felici di avere sul tavolo e in tasca l’ultimo costoso strumento di auto-delazione dal basso, sempre connesso e con tanto di GPS integrato, con cui presto potremo fare acquisti dimenticando la carta di credito, perché chi deve sapere sappia sempre cosa ci interessa e ci piace, dove siamo, cosa acquistiamo, cosa facciamo, con chi ecc. E poiché i device sono sempre più piccoli e meno capienti, è facile prevedere un’esplosione dello stoccaggio dei dati personali online .
E siamo arrivati ai giorni nostri. A differenza di quando Ippolita gridava nel deserto dell’entusiasmo tecnofilo che forse non era il caso di mettere “tutto su Google”, dalle mail in su, perché la delega (anche semi-inconsapevole) segna l’inizio del dominio (in questo caso, tecnocratico), oggi molte voci si levano contro i social network, accusati di violare la privacy degli utenti. Di essere frutto di un’ideologia fintamente rivoluzionaria, perché Internet sarà anche un movimento sociale, ma quanto elitario e contraddittorio …
In particolare Facebook, dicono alcuni autorevoli commentatori, è un progetto basato sull’ideologia della ” trasparenza radicale “, per cui è nella sua natura tendere a pubblicare indiscriminatamente ogni cosa, come dimostrano alcune mosse.
Bisognerebbe ricordare anche che i finanziatori di Facebook vengono dalla cosiddetta Mafia di Paypal , sono legati a doppio filo con i servizi di intelligence civili e militari, sostengono politici dell’estrema destra libertarian statunitense . Qualcuno si azzarda anche a notare, dall’osservatorio privilegiato di Harvard, che forse c’è una bolla dei social media , anche dal punto di vista economico, visto che nessuno ha ancora dimostrato che questi social media permettano di vendere meglio i prodotti personalizzati attraverso pubblicità mirate. Persino i supporter cominciano a temere le ambizioni di Facebook .
Al di là delle proposte concrete, piuttosto velleitarie (suicidio di massa su Facebook; Diaspora Project e Lorea per ricostruire un social network “libero”; reclami e petizioni alle varie Authority e ai vari Garanti ecc), qualcuno comincia a mettere il dito nella piaga. Il pubblico . Come “aprire” un codice non significa affatto “renderlo libero”, così “pubblicare” un contenuto non significa affatto renderlo “pubblico”. Al contrario. Spesso è proprio l’opposto: tutto ciò che viene postato diventa di proprietà esclusiva della società, (ri)leggetevi i TOS (Terms of Service). Ma come, non era stato pubblicato? Non era pubblico? Ma pubblicato non significa pubblico . In quasi tutti i casi del cosiddetto “web 2.0” significa, al contrario: privato, di proprietà di una multinazionale o comunque di una azienda privata. Abbiamo lavorato gratuitamente per quelli che cercheranno poi di guadagnare sulla nostra pelle, servendoci le pubblicità personalizzate che ci ammorbano sempre più. Proprio così. La contingenza è critica. Ma questa storia non è cominciata ieri, non ci troviamo per caso in questa situazione.
Piuttosto, vale oggi quello che valeva ieri, e che non siamo certo i primi a sostenere: bisogna essere in grado di immaginare il proprio futuro per capire il proprio presente. Ricordando il proprio passato, e creando un racconto collettivo, perché la memoria è un ingranaggio collettivo, nulla si ripete mai ma le differenze si somigliano, e la minestra scipita di ieri, un poco adulterata, potrebbe esserci propinata come l’innovazione radicale di domani.
Se l’immaginario sono le pubblicità, televisive o d’altro tipo, e si concretizzano nella “libertà di scelta” tra le infinite applicazioni per iPhone (se proprio non avete nulla da fare, e ne provate dieci al giorno, ne avrete per i prossimi vent’anni) o relazionarci con i cinquecento “amici” su Facebook (una cena ciascuno, riusciamo a malapena a incrociarci tutti una volta ogni due anni), beh, forse abbiamo insistito troppo poco sulla necessità di desiderare e immaginare qualcosa di meglio.
Finora abbiamo descritto l’ informatica del dominio così come la percepiamo quotidianamente.
Il metodo che si è costruito (cartografico, interdisciplinare) è necessariamente parziale e a volte poco rigoroso, ma ha permesso di far emergere il problema della delega tecnocratica in tempi non sospetti. “Tirare un colpo dritto con un bastone storto” dicevano gli schiavi giamaicani. Scrivere significa immaginare vie di fuga, e provare a raccontarle; immaginare e costruire strumenti adeguati per realizzare i nostri desideri. Mettere tutto ciò a disposizione di un pubblico che è fatto di persone, non pubblicarlo attraverso il megafono privato della bacheca invadente di qualche multinazionale.
Siamo in tanti nella stessa condizione, a non voler collaborare, a non voler partecipare al crowdsourcing delle masse dei social media .
I servizi di social networking spingono a ritoccare compulsivamente il proprio profilo per distinguersi dagli altri. Tuttavia non si tratta di differenze reali ma di variazioni minime all’interno di categorie predefinite (single? sposata? amico?). Il risultato è l’auto-imposizione dell’omofilia, gruppi in cui siamo “amici” perché diciamo che ci piacciono le stesse cose. La diversità scompare nell’ omologazione di gusti e comportamenti .
” Se la biodiversità è intesa come un bene per le altre specie e per l’ecosistema globale, perché non lo è altrettanto per la specie umana e i suoi eco-sistemi bio-culturali? ” (Lucius Outlaw, On race and Philosophy). Il valore della differenza però non è un principio quantitativo. Di più non è meglio; più oggetti/amici a disposizione non significa maggiore libertà di scelta. Il mercato globale digerisce ogni differenza. È difficile quindi rallegrarsi che qualche albero striminzito sia stato piantato per compensare le emissioni di CO2: il green capitalism rimane una follia come ogni ideologia produttivista.
Ma pur essendo immersi in questo mondo tecnologico, vorremmo cercare di prenderne le distanze, per scrivere una sorta di etnografia dei social media. Non di come funzionano (ci sono how-to e manuali per quello), ma del perché siamo in questa situazione e di come influenzarla, iniettando eterogeneità, caos, germi di autonomia. Siamo compromessi e implicati, ma questo non significa che dobbiamo accettare tutto in maniera acritica. A partire dall’esperienza collettiva si possono trarre conclusioni individuali, in un processo di straniamento che procede dall’interno all’esterno, invece che dall’estraneità alla familiarità come accade nelle osservazioni etnografiche classiche. I selvaggi siamo noi, e abbiamo bisogno di uno sguardo dichiaratamente soggettivo, non della presunta oggettività di un osservatore esterno. E poi per fortuna il mito dell’oggettività scientifica sopravvive solo nella vulgata deteriore. È più di un secolo che le scienze dure hanno imboccato la via del relativismo, è ora che anche le “scienze umane” lo facciano con decisione. Abbiamo bisogno di relativismo radicale, di prendere le distanze da noi stessi, di osservarci dal di fuori, per capire cosa stiamo facendo, per rendere concreta la nostra attività e poterla così comunicare in uno spazio pubblico, che va preservato, rinegoziato e costruito senza sosta. Usando la terminologia della Arendt, abbiamo bisogno di elaborare un discorso che renda conto delle nostre azioni di ricerca.
Qualcuno ha qualche idea? Noi qualcuna sì, fateci sapere!
Ippolita
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