Raccontare le differenze tra software proprietario e open source attraverso il mercato italiano. Questo, tra gli altri, uno degli obiettivi della ricerca portata avanti dal TeDIS , centro studi che si occupa di Technologies in Distributed Intelligence Systems per conto della Venice International University . Tra i due mondi, raccontano i ricercatori a Punto Informatico , esiste una sostanziale differenza in fatto di strategie di business: che occorre raccontare , soprattutto in una nazione dalle caratteristiche uniche come il Belpaese.
Quali sono, dunque, le differenze tra chi cerca di fare affari con il software a sorgenti aperti e quello a sorgenti chiusi? “È una domanda da un milione di dollari – spiega a Punto Informatico Antonio Picerni , ricercatore dell’istituto veneziano – Diciamo che in un ecosistema open source si cambia approccio, passando da una vendita legata alle licenze, intese come sistema di introito, ad un approccio al mercato pensato per la vendita di servizi di consulenza di vario tipo”.
Un passaggio che impone dei cambiamenti alle aziende che decidono di fare un passo verso l’open source , che gli impone di cambiare il modo in cui si avvicinano al mercato: “È un passo che a volte mette in crisi le software house, mentre in altri casi diventa la leva di marketing per imporre la propria offerta: si propone al cliente un applicativo open source e gli si offre a corredo una serie di servizi di consulenza, ad esempio per la formazione del personale”.
In passato il TeDIS ha già approfondito il problema della domanda sul mercato del software open source: “La domanda per questo tipo di soluzioni è in crescita – racconta a Punto Informatico Alessandro De Rossi , anche lui impegnato nel progetto – Si inserisce in un contesto più ampio, che dipende in massima parte dall’area di applicazione del software. Sul piano delle infrastrutture, ad esempio, l’open source è una realtà consolidata, rappresentata da nomi come Linux e Apache, PHP e MySQL”.
Differente il discorso quando ci si avvicina all’utente finale che deve lavorare in ufficio : “Quando si parla di applicativi più legati alla sfera gestionale o della manipolazione delle informazioni, si entra in un’area più delicata – precisa Picerni – Esistono alcuni progetti open source validi anche in questo settore, ma a cui il mercato non ha ancora dato visibilità: eppure la domanda per questo tipo di soluzioni esiste”.
Chi cerca soluzioni informatiche, raccontano i due ricercatori, spesso compra quel che trova: poco importa se siano open source o proprietarie. “A volte, però, può mancare la consapevolezza dell’esistenza di soluzioni open source – spiega Picerni – In quei casi dipende in larga parte dalla volontà del CIO”. Si può cioè decidere di adottare una qualsiasi soluzione, purché risponda ai requisiti richiesti e la cui introduzione sia facilmente integrabile nella struttura esistente. “In questi anni il settore IT non è cresciuto come avrebbe potuto, forse anche perché sul mercato esistono una sorta di monopoli su alcuni tipi di software – spiegano i ricercatori – Le aziende faticano a trovare alternative, utilizzano soluzioni datate e non performanti perché non possono investire in nuove licenze e aggiornamenti: così facendo, perdono competitività”.
“In ballo c’è il solito trade off – chiarisce De Rossi – C’è bisogno di una soluzione chiavi in mano o riadattabile? Il software open source tende a privilegiare quest’ultimo approccio, è in grado di offrire soluzioni per ambienti non standard ma richiede maggiori competenze per essere adottato”. Queste competenze, interne o esterne all’azienda, hanno un costo : e questo costo può, in principio, spaventare chi deve scegliere se investire.
Da questo punto di vista, dunque, le soluzioni chiavi in mano del software proprietario offrono dei vantaggi immediati , ma legano l’azienda alla presenza delle licenze: “L’open source, invece, garantisce nel lungo termine il risparmio del costo delle licenze: all’inizio può avere costi più alti, ma è come sempre uno scenario a luci ed ombre”. L’importante è “non essere talebani” scherza Picerni, ed operare scelte lungimiranti pensando al futuro della propria azienda.
Partendo da questa constatazione, nasce la necessità di ottenere maggiori informazioni sulla varietà e la consistenza dell’offerta open source: “Vogliamo capire la potenzialità di questa offerta – precisa Picerni – analizzandola nel contesto italiano: si tratta di una ricerca che non è ancora stata fatta da nessuno, e che finora ci ha fornito risposte interessanti e promettenti”.
Grazie ad un questionario online , i ricercatori raccoglieranno informazioni quantitative sul panorama delle aziende che già oggi presentano alla loro clientela soluzioni software a codice aperto. I dati verranno poi integrati dalle interviste telefoniche portate avanti dalla stessa equipe, che serviranno a fornire informazioni qualitative su ogni tipo di realtà coinvolta: dalla più piccola società di consulenza fino ai pesi massimi tra i system integrator.
“Speriamo di essere in grado di produrre una serie di profili, realizzando una mappa di come si configura l’offerta open source italiana – racconta De Rossi – rifacendoci senz’altro ai modelli internazionali, ma chiarendo se l’Italia presenta delle peculiarità”. I due confidano di ottenere risultati interessanti sotto questo aspetto, ma non intendono sbilanciarsi fino a ricerca conclusa.
“Ci rivolgiamo alle software house che utilizzano programmi open source, per tutta o parte della loro offerta: ci interessa capire chi sono, quanti sono e che tipo di lavoro svolgono per i loro clienti” spiega Picerni. “Vogliamo capire il rapporto che esiste tra l’offerta open source e le società di servizi”, aggiunge De Rossi: tentare cioè di comprendere se e come queste due procedano su binari separati o si mescolino tra di loro, integrandosi, creando quel tipo di offerta strutturata adatta a piccole, medie e grandi imprese.
a cura di Luca Annunziata
nota: Punto Informatico è online media partner di TeDIS