L’open source c’è, ma a volte “non si vende”. Sembra un gioco di parole, e non è affatto indice di scarso successo, ma è la realtà che si sono trovati davanti i ricercatori del TeDIS, centro studi della Venice International University: dopo mesi di lavoro su una ricerca che, tra le prime, offrisse uno spaccato autentico del mondo dell’impresa e del suo rapporto con il software a sorgenti aperti , il quadro che si viene a delineare è piuttosto interessante. I risultati saranno divulgati nel corso di un convegno che si terrà il prossimo 10 marzo, ma già oggi è possibile tracciarne in anteprima un riepilogo.
Scava scava, si scopre che a volte l’open source è la vera e propria spina dorsale di certe offerte proposte da alcune aziende: solo che, più che essere percepito come una risorsa, viene visto come uno strumento. E degli strumenti, a volte, ci si dimentica davanti al risultato finale: il cliente è in cerca di una soluzione che soddisfi i suoi bisogni e, vuoi per mancanza di cultura specifica in tal senso o per ragioni di opportunità, a volte non è interessato a cosa c’è “sotto il cofano” di quanto gli viene proposto. Un peccato visto che, dati alla mano, spesso le soluzioni OSS sono di qualità superiore.
Come spiega a Punto Informatico il ricercatore Antonio Picerni , che ha curato la ricerca, “È possibile fare affari con il software open source, ma non bisogna avere un atteggiamento fondamentalista: l’OSS funziona bene, ci sono ambiti in cui va benissimo, ma va utilizzato come strumento e non come un modello ideologico”. In ogni caso “Il software open source consente di creare un business diverso da quello tradizionale, e funziona anche con imprese medie e piccole, anche con meno di 20 dipendenti”.
“Stabilire quale sia la reale dimensione economica dell’open source in Italia – interviene Alessandro De Rossi , anch’egli impegnato nell’elaborazione dello studio – è forse difficile: l’OSS si inserisce in modo trasversale in questo settore, non rientra nelle categorizzazioni comuni. Le altre ricerche che si occupano di informatica come azienda comprendono anche Telco, produttori hardware: a noi interessava concentrarci su software e consulenza. È stata l’occasione per noi di tirar fuori dei numeri che avevamo già intuito, ma che volevamo quantificare e formalizzare”.
Il mercato, spiegano, non è formato solo da grandi player impegnati a tutto campo: ci sono molte piccole software house italiane, alcune molto interessanti, che fanno uso massiccio (se non totale) dell’open source, che lavorano con standard di efficienza e qualità molto alti . Ma sono ancora la minoranza quelle che riescono a far registrare grandi numeri in materia di fatturato: “Le più virtuose, se così si può dire, sono quelle che usano anche software non open source – spiega a Punto Informatico De Rossi – Quello che conta è la laicità, quello che conta è avere la capacità di avere a che fare con soluzioni varie ed esigenze varie dei clienti”.
Quello che colpisce, in ogni caso, è l’identikit dell’azienda che si occupa di open source : “C’è la categoria che noi chiamiamo dei giovani promettenti – racconta Picerni – Sono coloro i quali sono riusciti ad avviare un business basato in massima parte su OSS, fanno registrare in proporzione un fatturato doppio rispetto ad altre realtà, e sono dotati di una competenza interna elevatissima: spesso si tratta di realtà messe in piedi da ex-ricercatori universitari (o da persone che sono ancora impegnate in campo accademico), che trovano il modo di fare della propria conoscenza un business”. Per il resto, il quadro non potrebbe essere più variegato: “Ci sono aziende più piccole, la maggioranza, che hanno fatturati piccoli e gestiscono un portafoglio piuttosto ristretto di clienti – elenca De Rossi – Poi ci sono aziende che sono ancora piccole, ma che hanno più successo. E poi c’è un terzo gruppo, per il quale Antonio ha trovato l’etichetta giusta: l’open source c’è ma non si vende . Sono quelle aziende medio grandi che utilizzano l’OSS, ma non hanno soluzioni specifiche di questo tipo nel loro listino”.
“In questo ultimo insieme – chiarisce Picerni – ci sono i cosiddetti system integrator, circa una mezza dozzina di aziende che di open source fanno poco ufficialmente, ma in realtà lo usano parecchio: nel questionario magari dicono di realizzare meno del 5 per cento del fatturato tramite questo tipo di software, poi quando ci parli al telefono ti raccontano che quelle sono solo le percentuali identificabili direttamente, e che magari se entrano in un’azienda per integrare due sistemi proprietari utilizzano uno strumento OSS”.
Interviene De Rossi: “C’era una azienda che è specializzata nel monitoraggio delle reti, e per farlo utilizza software open source: ma al cliente dicono che fanno monitoraggio, non che fanno open source”. Gli fa eco Picerni: “Stiamo parlando di un mercato, e quindi di un rapporto tra domanda e offerta: quello che conta, in un rapporto tra software house e impresa, sono le soluzioni. Spesso entrare nello specifico, di come cioè siano realizzate queste soluzioni, al cliente interessa poco”.
Quello che conta, insomma, è che il risultato sia buono: e da questo punto di vista è sempre il software open source ad offrire un certo tipo di garanzie . “Nessuno ha una percezione negativa del OSS – conferma Picerni – Il software è ritenuto di buona qualità, il codice sorgente pure, molto apprezzata la possibilità di imparare mettendoci le mani. Lo stesso dicasi per le licenze aperte: l’ipotesi che possano impensierire paventando la perdita di vantaggi competitivi non ha riscontro, le aziende che lavorano con l’open source hanno compreso il modello e anzi vi fanno leva per valorizzare e rivendere questo asset”.
Quello che manca al momento, spiegano a Punto Informatico , è la capacità di andare oltre alcuni vecchi contrasti: ormai sono 10 anni che esiste il software open source cosiddetto commerciale, anche Richard Stallman ha ribadito che ormai questo modello di sviluppo è un dato di fatto . Bisogna sfruttarlo come fosse uno strumento, non distrarsi badando soltanto alle questioni di etica: non sempre il cliente è ricettivo rispetto a certe questioni, quello che gli interessa a volte non è tanto avere un software aperto o chiuso quanto piuttosto una soluzione di un certo tipo, e soprattutto che funzioni.
Curioso che, attualmente, uno dei principali problemi sia reperire personale realmente competente in questo settore: “Qui potremmo aprire una parentesi tirando in ballo le università, l’importanza della formazione: spesso è proprio in questi ambiti che nascono spin-off interessanti – spiega Picerni – In ogni caso, diciamo che nel mercato ci sono molti programmatori con buone competenze, e poi ci sono dei fuoriclasse che hanno davvero una marcia in più: trovarli in ambito open source è difficile, scovare chi sia in grado di scrivere codice eccellente in un contesto non strutturato, di collaborazione e condivisione, non è sempre semplice”. Gli domandiamo se, alla luce dello studio, siano in grado di formulare la ricetta per un business open source di successo : “Non saprei dire se esista un modello – si sbilancia Picerni – Quello che posso dire è che ci sono delle buone pratiche, un modo di approcciarsi corretto: considerare l’open source uno strumento di alta qualità, che consente di abbattere i cosi iniziali, ma restando focalizzati sul servizio. Quello che va offerto è un servizio che funzioni, non bisogna tentare di vendere l’open source di per sé. Se per i grandi clienti l’OSS ha dei vantaggi tangibili, basti pensare all’assenza del lock in , per i clienti più piccoli questi vantaggi non sempre sono percepiti”.
“Non ha molto senso – interviene De Rossi – vendere solo l’open source: è uno strumento. Il modello che funziona è vendere servizi e soluzioni che consentono di avere efficienza e costi ridotti, in modo da aumentare la redditività. Quello che emerge dai dati e dalla nostra esperienza è che il pubblico italiano più di altri sceglie in base all’efficienza, al costo, alla flessibilità della soluzione. Di solito il committente si preoccupa poco di guardare dietro le quinte, per così dire, ma i veri vantaggi dell’OSS sono per chi lo vende”.
Dello stesso avviso anche Picerni: “Per la mia esperienza le aziende, quindi la domanda, non sono interessate ai possibili vantaggi dell’OSS, forse non li hanno ancora neppure compresi: gli interessa che quanto ottengono funzioni, svolga determinati compiti nel migliore modo possibile. E l’open source, lato offerta, permette di farlo nel modo ottimale: in questo senso è chi lo offre ad avere il vantaggio maggiore”.
Alla domanda, spiega a Punto Informatico , in alcuni casi manca ancora la capacità interna di analizzare l’offerta e valutare sul lungo periodo i vantaggi : ma non bisogna pensare che gli ostacoli all’adozione dell’OSS siano tutti altrove.
“A volte – prosegue – del software open source viene criticato l’aspetto estetico, viene sottolineata la scarsa attenzione all’aspetto comunicazione: non è un caso se tra i più grandi successi in ambito OSS ci siano software, come Firefox, che hanno unito la qualità ad una campagna di divulgazione efficace, e badando alla facilità d’uso. Si pensi a WordPress, a tutti gli effetti software open source, che è indiscusso leader di mercato con una cura dell’interfaccia utente che non ha pari neppure in ambito closed. In questo senso, l’evoluzione successiva necessaria per la maggior diffusione dell’OSS consiste nell’aver maggior cura dell’esperienza finale”.
Nel complesso, i ricercatori si dichiarano soddisfatti del lavoro svolto. Sono stati analizzati centinaia di questionari, rendendo chiaro una volta per tutte l’interesse che c’è per l’open source anche all’interno dell’impresa: “È un ambiente molto vivo – conferma De Rossi – A volte si era parlato di open source a sproposito: prima tutti a lodarne le magnifiche sorti, poi appena c’è stato qualche problema è stato dato per spacciato. La realtà è diversa, è un settore interessante anche se di difficile indagine per via della sua trasversalità: ha logiche tutte sue, ma proprio per questo il nostro studio ha prodotto risultati interessanti, capaci di far luce su un ambiente variegato che a volte non viene compreso fino in fondo”.
“Ne è valsa la pena – conferma Picerni – Difficile quantificare lo sforzo in un processo che è durato quasi un anno, ma si tratta di una esperienza che ci ha arricchito dal punto di vista umano e professionale. Questo è comunque un settore che vale questi sforzi, il dibattito dal punto di vista accademico è molto interessante a tutti i livelli: noi abbiamo scelto un taglio legato al mercato, eravamo interessati a produrre qualcosa che potesse essere utile alle aziende coinvolte”. “Qual è la potenza di fuoco dell’open source? – domanda De Rossi – Se ne parla tanto, a volte se ne ha una percezione come qualcosa di elitario: dati alla mano abbiamo voluto verificare e capire cosa succede”.
“Nella nostra trattazione – anticipa Picerni – porremo l’accento sulle aziende che compongono questo universo, sull’eccellenza italiana: anche solo a badare a quanto succede da noi in ambito nazionale si scoprono cose interessanti, con imprenditori, ricercatori e professionisti che si mettono in gioco. La ricerca ha un fine pratico, tenta di offrire spunti su come posizionarsi sul mercato, come investire, come approcciarsi al cliente”. Dello stesso avviso De Rossi: “L’open source è una risorsa in azienda, a volte quasi una commodity: certo esistono anche altri ambiti, con dinamiche molto più grandi come quelle delle community. Ma quello che conta è che si tratta di un mondo ricco, dove le strade innovative da battere sono molte”.
a cura di Luca Annunziata
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