Sono sempre le email riservate tra il management e i dipendenti Google a costituire il fulcro del processo intentato da Oracle contro la presunta violazione di copyright perpetrata da Mountain View con Android. E con tutta l’evidenza del caso, i Googler hanno un bel da fare per convincere la giuria e il giudice di non aver fatto nulla di male.
Parla ad esempio di fraintendimenti e interpretazioni fuor di contesto Timothy Lindhom, l’ingegnere del software passato (nel 2005) da Sun a Google e autore di una delle email succitate inviata al gran capo di Android Andy Rubin.
In quella email Lindhom dice di aver ricevuto l’incarico dai co-founder di Google di cercare alternative valide a Java per Android e Chrome, alternative che secondo l’ingegnere facevano tutte “schifo” e che quindi dovevano essere abbandonate in favore di una licenza ufficiale per sfruttare appieno la virtual machine di Sun.
“Abbiamo bisogno di negoziare una licenza per Java secondo i termini di cui abbiamo bisogno”, diceva testualmente la mail, ma per Lindhom si tratta di parole male interpretate e lui in nessun caso stava raccomandando al management di Google di acquisire una licenza da Sun per Java.
Altra poltrona calda è stata poi quella di Larry Page: chiamato per l’ennesima (e certo non ultima) volta alla sbarra, il CEO di Google dimostra insofferenza per le domande dell’accusa, dice di non ricordare di aver chiesto niente a Lindholm e riafferma la “strada personale” seguita da Google dopo il fallimento delle negoziazioni per l’utilizzo della tecnologia di Sun. Dopotutto Android, continua Page, non è vitale per Google ma è solo un mezzo per la somministrazione di servizi e advertising agli utenti.
Alfonso Maruccia