La battaglia per la musica online forse deve ancora cominciare. Se la class action lanciata contro RIAA da una giovane donna in Oregon dovesse andare in porto, ci sarebbero 20mila procedimenti giudiziari per violazione del diritto d’autore che potrebbero dover essere ridiscussi. Se passasse una nuova legge proposta in Svezia, gli ISP verrebbero definitivamente sollevati dal controllo di quanto accade sulle loro reti. E se in Irlanda, infine, Eircom (il principale fornitore nazionale di accessi ad Internet) dovesse avere la peggio, si aprirebbe una nuova era: quella dei provider responsabili per le violazioni compiute attraverso le proprie reti.
È proprio quest’ultima la vicenda che desta maggiore interesse: il giudice Justice Peter Kelly ha dato il via al procedimento giudiziario che vede opposte a Eircom le major discografiche EMI, Sony BMG, Universal Music e Warner Music. L’azienda di telecomunicazioni è accusata di favorire lo scambio pirata di musica sulle proprie reti a causa del rifiuto di implementare tecnologie di filtraggio e di blocco di materiale giudicato come tale.
Per Willie Kavanagh, a capo della divisione locale di EMI e presidente dell’associazione nazionale dei discografici ( IRMA ), a causa del download illegale negli ultimi 6 anni il giro d’affari dell’industria musicale irlandese avrebbe subito una contrazione significativa, passando da un totale di 146 milioni di euro raccolti attraverso le vendite nel 2001, ad un più modesto ricavato di 102 milioni di euro nel 2007. Secondo Kavanagh , le cause principali del declino sarebbero il file sharing sulle reti P2P e l’aumento del numero di connessioni a banda larga sul suolo nazionale.
I legali di Eircom rigettano ogni accusa: l’azienda non sarebbe a conoscenza di alcuna attività illegale compiuta attraverso le sue reti, né alcuna azienda tra quelle che oggi l’hanno trascinata in tribunale si era mai fatta avanti per segnalare qualche problema. Nessuna di loro, inoltre, ha alcun diritto legale per costringere l’ISP ad implementare tecnologie di monitoraggio del traffico sul network. Ma per i discografici non c’è storia: “Eircom – ha concluso Kavanagh – sa benissimo che i suoi servizi vengono impiegati per violare la proprietà intellettuale su vasta scala”.
Le intenzioni delle quattro sorelle appaiono chiare: in mancanza di una Dottrina Sarkozy declinata in gaelico , le major sperano di costringere Eircom a dotarsi di tutti quei sistemi di controllo che sono al centro della proposta che, partita dalla Francia , sta spopolando in mezzo mondo . Il tutto, però, mentre in Svezia l’ordinamento legislativo si va orientando verso il sollevamento dei provider dai compiti di controllori delle proprie reti, in linea con quanto affermato dall’ attuale direttiva per il commercio elettronico.
Una ipotesi che però non è piaciuta per niente al Partito Pirata , che ha i suoi natali proprio in Svezia, e che non ha esitato a definire la proposta come una “dichiarazione di guerra ad una intera generazione di giovani votanti (…), fatta per conto delle aziende cinematografiche e musicali statunitensi”. Per i rappresentanti della forza politica, che durante le scorse consultazioni ha raccolto meno dell’uno per cento delle preferenze, “il Governo si trova davanti ad una scelta: accettare che il file sharing è un dato di fatto storico e tecnologico, oppure continuare smantellare la democrazia e lo stato di diritto per proteggere una industria non più al passo coi tempi”. Il timore espresso dal Piratpartiet è che gli avvocati delle major musicali possano abusare di questo strumento, utilizzandolo per “ricattare i presunti colpevoli con minacce di richieste di indennizzo da record, al solo scopo di convincerli a pagare volontariamente una cifra forfettaria”.
Uno scenario che trasformerebbe la Svezia da paradiso a inferno del P2P , ma ciò non toglie che tutto questo discutere in tribunale e legiferare in parlamento potrebbe presto andare incontro ad una drastica battuta d’arresto . Torna ad affacciarsi, per l’ ennesima volta , l’ipotesi di una tassa sul P2P , che non più di un paio di mesi fa era stata bocciata (per l’ ennesima volta ) dai rappresentanti delle case discografiche.
A proporlo, però, in questa occasione, non sono i membri di Electronic Frontier Foundation o di qualche organizzazione affilata al Partito Pirata. Questa volta l’idea è di Jim Griffin, affermato consulente delle major discografiche, che l’ha rilanciata di recente durante una conferenza tenuta in Texas la scorsa settimana.
Un’idea ripresa subito tra gli altri da Peter Jenner, dirigente di una associazione internazionale di manager musicali ( IMMF ), secondo cui “sarebbe un modo per tentare di monetizzare l’anarchia”. Secondo Jenner , che condivide le proposte di Griffin e di EFF, le cose negli ultimi anni sono cambiate: “Le etichette cominciano a gradire l’idea di una tassa di accesso alla musica, perché sono sempre più preoccupate che il loro modello di business sia irrimediabilmente compromesso”. Lo dimostrerebbero, per Jenner, i dati di vendita dei CD costantemente in calo, mentre i numeri dei distributori di musica online appaiono in netta controtendenza.
Se queste proposte resteranno chiuse in un cassetto non è dato saperlo. Quel che è certo è che sul piano giudiziario le cose per le major si stanno facendo sempre più complesse – almeno negli USA. Quanto più complesse per ora non è ancora chiaro, ma nella peggiore delle ipotesi a RIAA e alle aziende che rappresenta potrebbe costare molto cara l’azione legale intentata da Tanya Andersen, madre single dell’Oregon che, dopo essere finita per sbaglio nella “rete” delle major come presunta pirata musicale, ora è in cerca di un risarcimento.
Le cose per le quattro sorelle potrebbero farsi anche più difficili se alla denuncia della Andersen sarà attribuito lo status di class action nazionale come richiesto nelle scorse ore dai legali della donna ad un tribunale del suo stato. Al centro dell’azione ci sono le tecniche di indagine adottate da MediaSentry per conto RIAA, nonché le strategie giudiziarie adottate dai discografici per individuare i presunti colpevoli del file sharing pirata e costringerli a risarcire il danno perpetrato ai loro possibili introiti.
RIAA e MediaSentry si sono sempre rifiutate di fornire i dettagli sulle operazioni svolte al fine di individuare gli utenti del file sharing. Ma i legali di Andersen tenteranno di dimostrare la complessiva illegalità delle indagini svolte per conto delle major, e la minaccia di estendere il procedimento a chiunque sia rimasto coinvolto da investigazioni analoghe potenzialmente potrebbe ridimensionare le migliaia di simili azioni legati scatenate da RIAA su suolo statunitense.
Nel caso di Jammie Thomas , questo approccio non aveva avuto successo. Ma per Andersen, per la quale le accuse sono state ritirate per mancanze di prove, le cose potrebbero andare diversamente. Per lei potrebbero anche fioccare risarcimenti importanti: sempre che il giudice decida di ammettere il caso e sempre che accetti di trasformarlo in una class action. Correre da sola, contro lo stuolo di avvocati messo in campo da RIAA e dalle major, potrebbe rivelarsi davvero troppo dispendioso.
A controbilanciare il caso Andersen arriva una sentenza che invece potrebbe spianare la strada a molte altre condanne . Nel caso Atlantic contro Anderson , un cittadino texano è stato giudicato colpevole di violazione del diritto d’autore dopo aver ammesso di aver effettivamente messo in condivisione non meno di 31 file attraverso il noto software Kazaa. Anderson aveva tentato di convincere il giudice che quanto aveva fatto non costituiva un reato, poiché i detentori dei diritti su quei brani avevano mancato di segnalare con dovuta precisione che mettere in condivisione la loro musica con quel tipo di programmi costituiva una violazione della legge.
Per Anderson, “senza una dichiarazione ufficiale, la distribuzione di materiale informativo da parte dell’attore, o qualsiasi altro strumento che informasse il pubblico di quali azioni costituiscono una violazione del diritto d’autore, non è possibile che gli utenti sappiano che l’utilizzo di alcuni programmi viola la licenza d’uso”. Ma il giudice incaricato, l’onorevole Vanessa Gilmore, nella sua sentenza ha invece posto l’accento sul fatto che l’imputato non solo aveva ammesso di aver commesso il fatto , ma che i dati raccolti da MediaSentry corrispondevano in pieno alla confessione da lui sottoscritta. Ora Anderson dovrà risarcire 23.250 dollari per le violazioni compiute, vale a dire circa 750 dollari a brano (475 euro) più le spese processuali. Rigettata anche qualsiasi istanza sulla non proporzionalità del risarcimento stabilito rispetto al reato commesso: il giudice nella sua sentenza ha chiarito che il “danno causato dall’imputato al querelante è incalcolabile”, e pertanto la somma indicata appariva in ogni caso adeguata.
Una prospettiva molto gradita dalla RIAA, i cui rappresentanti hanno ribadito che “citeranno spesso” questa sentenza nei prossimi procedimenti. Da notare, tuttavia, come la condanna di Anderson sia stata principalmente motivata dalla sua ammissione di colpevolezza : sul tappeto, resta la questione legata all’equazione sharing=violazione , sostenuta dalle major ma negata da Electronic Frontier Foundation e persino da una sentenza emessa da un tribunale del Connecticut.
Luca Annunziata