I campus universitari sono un covo di giovani pirati, gli studenti vanno educati e riportati sulla retta via: l’industria della musica non intende ridurre l’intensità della gragnola di denunce che abbatte sulle istituzioni universitarie. Nemmeno nel momento in cui si staglia all’orizzonte un’ipotesi che potrebbe porre fine alle schermaglie, con strategie capaci di mostrare agli studenti che esistono alternative legali alla fruizione di musica attinta a circuiti online senza retribuire i detentori dei diritti.
Il bersaglio dei tutori del copyright è ora la East Stroudsburg University della Pennsylvania: nel corso del semestre sono state 60 le notifiche che hanno raggiunto i vertici dell’ateneo, sono 60 i casi in cui i detentori dei diritti rappresentati dalla RIAA avrebbero individuato delle violazioni commesse sull’infrastruttura dell’università. Non si tratterebbe di un aumento degli studenti scapestrati ma di un giro di vite operato dall’industria della musica: lo scorso anno gli avvertimenti erano stati solo 5. Nessuna delle notifiche ha per ora avuto un seguito: il personale tecnico ha recepito, monitora gli studenti, non sembra aver inoltrato all’industria della musica alcun nominativo sul quale rivalersi.
L’opera di educazione e di repressione condotta dall’industria della musica incardinata sul timore non sembra più sortire alcun effetto. “È un po’ inquietante – racconta una studentessa della ESU – ma immagino che si debba scaricare un bel po’ di roba per mobilitare la RIAA: finché non se ne abusa, non c’è probabilmente nulla di cui preoccuparsi”.
È per questo motivo che i colossi dell’industria musicale stanno sfoderando strategie alternative : esercitano pressioni sulle università convincendole a introdurre strumenti di contenimento della circolazione di musica sui circuiti P2P, esercitano pressioni sulle autorità statali perché a loro volta impongano agli atenei di soffocare la pirateria con dei filtri . Il Tennessee è stato sospinto laddove le leggi federali non sono state in grado di arrivare : ha recentemente introdotto, per le università che come la ESU abbiano ricevuto più di 50 denunce di avvenuta violazione, l’ obbligo di introdurre filtri foraggiati dallo stato.
Ma, osservavano da EFF, un sistema esclusivamente repressivo non consente alle giovani generazioni di comprendere che la fluidità della musica che scorre online è frutto del lavoro di artisti che vi hanno infuso tempo e creatività e che per questo andrebbero retribuiti. Per questo motivo ha raccolto il plauso di molti l’ apparizione in rete di un documento che sembra testimoniare il rinnovato interesse di Warner per un sistema di licenze collettive a favore delle università , Choruss . Opererebbe indipendentemente dalla piattaforma di sharing scelta dagli studenti, consentirebbe loro di attingere alla rete per appropriarsi legalmente di musica di cui si terrebbe traccia in modo da ricompensare in maniera proporzionata i detentori dei diritti.
Sono in molti ad osservare che un sistema come Choruss possa prevenire l’abbattersi di denunce e notifiche sulle strutture universitarie e sugli studenti. Ma c’è chi non tollera che la licenza possa essere introdotta su base obbligatoria, assumendo così i contorni di una tassa. Una tassa imposta in maniera non trasparente agli studenti, una tassa dovuta alle grandi etichette che vorrebbero sbaragliare la concorrenza dell’innovazione con soluzioni calate dall’alto. Il dibattito è aperto e Warner ha già provveduto a temperare gli animi : le negoziazioni non sono che in una fase embrionale.
Gaia Bottà