Londra – Sono 28 i primi utenti britannici interessati da un provvedimento che in breve tempo potrebbe toccare molte più persone. Si tratta delle persone denunciate nel corso di quella operazione internazionale che dieci giorni fa ha preso di mira in tutta Europa, Italia compresa, centinaia di utenti dei sistemi di peering .
I provider britannici entro due settimane dovranno consegnare i nomi alla British Phonographic Industry (BPI) , l’associazione dei produttori che aderisce alla IFPI , la federazione di major ed etichette indipendenti che è il vero motore dell’operazione antiP2P e che già nei mesi scorsi aveva avvertito gli utenti dell’arrivo di nuove azioni di denuncia.
* Dai nomi alle denunce
A stabilire che gli ISP devono collaborare è stata l’Alta Corte inglese che, in questo modo, fornisce ai produttori le armi per trasformare la denuncia contro ignoti in un vero e proprio procedimento legale a carico di ogni singolo utente identificato .
A questo proposito va segnalato come soltanto due settimane fa negli Stati Uniti la Corte Suprema abbia deciso di non rivedere il caso Verizon , il provider che si era opposto alle major volendo proteggere i nomi dei propri utenti fino a quando un tribunale, e non un avvocato di parte, gli imponesse di consegnare quei dati. Una controversia che Verizon ha vinto e che impone ora ai discografici una più pesante trafila legale e burocratica per dare ai numeri IP rastrellati in rete un nome e un cognome.
Cosa accadrà ora? I 28 utenti britannici, come le 650 persone denunciate nel complesso in questa operazione e in quelle precedenti in Europa, sono considerati tutti grandi “condivisori” , ossia si ritiene che mettessero a disposizione degli utenti del peer-to-peer enormi quantità di file protetti. Secondo Peter Jamieson, testa della BPI, si tratta di utenti che “condividono musica su vastissima scala, rubando nei fatti le opportunità a migliaia di artisti e alle persone che investono su di loro”.
* Ai processi si potrebbe non arrivare
Secondo BPI i 28 avrebbero messo i propri file a disposizione di un pubblico potenziale di almeno 7 milioni di persone nel solo Regno Unito, numero che si può stimare assai più ampio considerando le decine di milioni di utenti che utilizzano le piattaforme di file sharing in tutto il mondo. A quanto pare, ma ciò emergerà più chiaramente durante i processi, non è onere dei discografici provare che effettivamente quel materiale è stato condiviso ma, più semplicemente, che è stato messo a disposizione.
Ai processi peraltro si potrebbe non arrivare se, come già accaduto negli USA in molti casi, gli utenti interessati troveranno un accordo extragiudiziale con i discografici. Proprio l’assenza di procedimenti veri e propri ha fin qui impedito un confronto legale in tribunale tra discografici ed utenti, secondo molti assolutamente necessario. È d’altro canto ovvio che molti utenti investiti dalle denunce preferiscano tirar fuori qualche migliaio di dollari o di euro anziché impelagarsi in un lungo processo nel quale si trovano a combattere con agguerriti legali dell’industria di settore.
* Il deterrente
Come già rilevato in precedenza da molti osservatori e come più volte peraltro ribadito dagli stessi discografici al di qua e al di là dell’Atlantico, le denunce contro i singoli utenti hanno lo scopo di “sensibilizzare” l’opinione pubblica, e in particolare chi fa uso dei programmi di peering, sulle leggi antipirateria.
Secondo i discografici di IFPI, infatti, l’uso dei sistemi di scambio in rete ha un ruolo fondamentale nel calo delle vendite mondiali di musica su supporti tradizionali e rappresenterebbe anche una spina nel fianco del peraltro esplosivo mercato della musica venduta via Internet. I dati di IFPI riprendono quelli di Enders Analysis e Forrester Research, secondo cui la pirateria via internet giustifica almeno un 35-40 per cento del calo del mercato.