Rischia la pena capitale colui che in Pakistan attenti alla vita di altre persone mediante azioni di cyberterrorismo e riesca nel suo intento, rischiano il carcere e multe consistenti coloro che impugnino impropriamente gli strumenti della rete. Ma anche la mossa incauta di un netizen potrebbe tradursi in una punizione sproporzionata.
Il presidente Asif Ali Zardari ha firmato una legge che mira alla “prevenzione dei crimini elettronici”: la legge ha effetto su qualunque netizen che si scagli contro le autorità e mini la sicurezza nazionale o infastidisca un cittadino pakistano. Poco importa che agisca dall’esterno dei confini del Pakistan, poco importa che sia cittadino di un altro paese: su tutti i cyberterroristi e su tutti i netizen pende la minaccia di una pena più che severa.
La lista dei crimini è ampia e nutrita, così come sono estremamente varie le sanzioni previste per chi si macchi di un reato commesso attraverso la rete: il semplice accesso non autorizzato a macchine altrui, con o senza la violazione di misure di sicurezza, è un reato per cui le autorità hanno stabilito multe che non eccedono i 3mila euro e una pena detentiva che può raggiungere i due anni; il danneggiamento dei dati che risiedono su sistemi altrui è punibile con tre anni di carcere; la frode condotta con i mezzi informatici merita invece 7 anni di prigionia. Per dissuadere coloro che confezionano, offrono, rendono disponibile o distribuiscono malware che “possa causare un danno al sistema o che possa provocare la corruzione, la distruzione, la soppressione, il furto o la perdita di dati” le autorità pakistane prevedono 5 anni di carcere. Allo stesso modo gli spammer che infastidiscano i cittadini della rete pakistani non hanno vita facile: tre mesi di carcere attendono i recidivi che non si siano lasciati convincere da una multa. 7 anni di carcere, 10 anni nel caso in cui la vittima sia un minore, attendono invece i cyberstakler che rivolgano angherie nei confronti dei netizen pakistani comunicando loro contenuti lascivi, volgari o profani , facendo loro “proposte di natura oscena”, “minacciando atti illegali o immorali”, diffondendo immagini di una persona senza avere ottenuto il suo consenso, incoraggiando il cyberstalking dando in pasto alla rete informazioni su persone che potrebbero diventarne vittime.
“Ogni persona o gruppo o organizzazione che, con intenti terroristici, utilizzi, compia l’accesso o faccia in modo di consentire l’accesso a un computer o a una rete di computer o ad un sistema o a un dispositivo elettronico e metta in atto o tenti di mettere in atto un atto terroristico commette il crimine di cyberterrorismo”: può farlo per “allarmare, spaventare, sconvolgere, danneggiare o compiere un atto di violenza contro un segmento della popolazione, il governo o altre entità”, può farlo rubando, copiando o modificando delle informazioni, certo è che “chiunque commetta un atto di cyberterrorismo e provochi la morte di una persona sarà punibile con una condanna a morte o il carcere a vita ” e con una multa che sia di almeno 100mila euro.
Perché le forze dell’ordine possano procedere alle indagini, i provider dovranno collaborare conservando i dati di traffico per almeno 90 giorni: se i termini della data retention sono meno lunghi che altrove, la minaccia di una condanna a una detenzione di sei mesi potrebbe scoraggiare gli ISP ribelli.
I termini tracciati dalla legge sono vaghi, le punizioni appaiono sproporzionate ai tutori dei diritti civili, come la commissione sui diritti umani per il Pakistan: le autorità potrebbero abusare della legge anche per mettere a tacere la voce di attivisti armati di sole parole scomode o di immagini pubblicate senza il consenso della persona ritratta. La legge, che fermenta in Pakistan da tempo, è sempre stata giustificata richiamando alla mente l’episodio della morte e del rapimento del giornalista Daniel Pearl: se le autorità pakistane puntano il dito contro lo scambio di email con cui i suoi rapitori si sono accordati per ucciderlo, Reporters Sans Frontières ricorda che i crimini da punire sarebbero il rapimento e l’omicidio, non lo scambio di email che li ha preceduti.
Gaia Bottà