“Papà, tu sai parlare in corsivo?”
Il volto che devo aver fatto in quel momento (non a caso non uso qui la parola “faccia”, ma “volto”) dev’essere stato quello giusto, quello atteso: quello dello smarrimento, della reazione al precipizio imminente, della capitolazione. Quello del boomer colto in castagna. Povera figlia mia, alla quale ho risposto con quel tono snob e birignao che ha smentito la capitolazione e ha sentenziato il fatto che questo boomer sapeva cosa fosse questa storia del parlare in corsivo prima che diventasse mainstream e anche Gramellini avesse di cui parlarne.
Ma nel frattempo la riflessione era ormai partita. Perché mia figlia mi ha posto questa domanda? Quel che conta non è tanto il corsivo in sé (per anni ho lavorato per insegnarle a scrivere in corsivo e ora improvvisamente lei vorrebbe insegnarmi a parlarci), né il fatto che il “corsivoe” sia improvvisamente diventato trend e che qualcuno su Tik Tok se ne stia simpaticamente costruendo su un personaggio. Tutto ciò è in realtà mera cornice, perché quel che conta realmente è in quegli istanti nei quali una figlia, prima di addormentarsi e subito dopo il tradizionale bacino sulla fronte, ti guarda e ti chiede “Papà, tu sai parlare in corsivo?”.
Ma l’importante non è il cörsivœ in sé
Dietro quella domanda non c’è il corsivo in sé. Del resto è anche ovvio: il cörsivœ in sé non esiste se non come vaporware trend. Confondere testo e contesto non consentirebbe di capire la situazione. Dietro quella domanda, in realtà, c’è la ricerca di un codice linguistico comune, probabilmente nella speranza di non trovarlo. In quella domanda c’è il tentativo (lecito e benedetto) di una generazione che prova ingenuamente ad imporre sintagmi propri, concetti “nuovi” ed una neolingua. C’è una messa alla prova, una sfida, un confronto. Il codice linguistico, infatti, è condizione esistenziale per la definizione di una comunità e di una identità: creare elementi esclusivi, che non appartengono ad altri, implica segnare una differenza, una superiorità ed un arricchimento, iniziando a scavare le radici per andare ad occupare uno spazio che sarà in realtà il tempo a consegnare in modo naturale. Il cörsivœ in tal senso non va certo considerata come lingua identificativa, ma molto meno: è semplicemente un token del quale una generazione tenta di mantenere l’esclusività e sul quale prova a costruire valore. Ogni generazione nasce povera, ma di fronte ha molto tempo per potersi costruire i propri spazi: la generazione Z lo fa sui social come altre generazioni lo facevano davanti ad un juke box, ad un Walkman o ad un pallone.
Non c’è generazione che non lo abbia fatto. Ognuna arroccata sui propri personaggi come fossero i migliori, sulla propria musica come fosse univocamente originale, sui propri modi di dire come fossero portatori di Verità, sul proprio modo di pensare come fosse costruito su dogmi. Ogni generazione lo ha fatto con l’ingenuità dell’oggi, senza ragionare sul fatto che ognuno di noi siede sulle spalle dei giganti e solo grazie a questo sa guardare poco oltre. Anche il rock ha copiato e preso a spallate la musica classica, così come la trap copia e prende a spallate il rock, con un susseguirsi di accuse su chi ha preceduto e di svilimento per chi seguirà: ognuno di noi è boomer di qualcun altro, tronfio di nuovismi da poter sbandierare e troppo spesso scarno di cultura per poter riconoscere quanto debole e ingenuo sia questo tentativo che fa semplicemente parte della maturazione. Si diventa grandi anche così.
Ho fatto male a far capire a mia figlia – vittima della mia deformazione professionale – che sapevo dell’esistenza del “cörsivœ“: è un tassello di neolingua della durata di poche settimane che aveva diritto a conoscere “solo lei” (aehm). Le ho negato il piacere della differenza, dell’affermazione, del rinforzo identitario in appoggio alla propria collettività di riferimento. Le ho però forse instillato il dubbio per cui non siano questi magri elementi da trend topic a servire davvero per arricchire una comunità generazionale (e non soltanto per appartenervi): la conoscenza viene prima di ogni altra cosa, lo studio può offrire strumenti di consapevolezza ben più preziosi, la curiosità può consentire una comprensione ben più profonda.
Fatto sta che le ho detto che conoscevo il cörsivœ e ora facciamo a gara a chi lo usa meglio. Anche saper costruire un sano rapporto tra padre e figlia è importante: nascondersi dietro a studio, snobismo e cultura rende boomer più di quanto non lo sia naturalmente ognuno di noi per età, aspirazioni e prematura rinuncia alla conoscenza.
Post scriptum döverosœ
La Treccani recita:
Nel gergo teatrale, dizione ridicola e artificiosa, con pronuncia nasale e con vocali finali prolungate, eccessivamente enfatica.
Ma la parola descritta non è “cörsivœ“: è “birignao“, ossia il cörsivœ di altri tempi, di altre generazioni, di altri Tik Tok. Di altri boomer.