Un’indagine per molti versi del tutto inedita quella condotta in questi giorni contro gli abusi sui minori, una campagna investigativa che ha preso corpo in molti diversi paesi e che ora ha ridotto al silenzio una chat room dedicata alla condivisione di materiale pedopornografico.
Per uno dei gestori di quella chat è già scattata la condanna alla reclusione “fino a che non rappresenterà più una minaccia per i bambini”. Kids the Light of Our Lives , “i bambini, la luce delle nostre vite”, questo il nome della community attorno alla quale ruotava un circuito di persone in trentacinque stati, segnala Wired . Centinaia di migliaia le foto e i video prodotti e scambiati, testimonianza di abusi compiuti su minori, tutto materiale ora all’attenzione degli inquirenti.
Regno Unito, USA, Canada, Australia sono solo alcuni dei paesi le cui forze dell’ordine sono state mobilitate nell’operazione guidata dal Child Exploitation and Online Protection Center ( CEOP ) britannico, durata dieci mesi e tuttora in corso, nonostante l’arresto di quelli che sono considerati due dei principali responsabili.
Quasi a voler dare un volto alla brutalità, a voler offrire una catartica valvola di sfogo, i media hanno mostrato al mondo le immagini del criminale condannato, ne hanno tratteggiato la vita fin nei dettagli. 27 anni, rispettabile, Timothy Cox si presentava come Son of GOD , a sottolineare l’affinità con G.O.D., l’ex gestore di una chat pedopornografica americana, che operava sotto questo altisonante pseudonimo.
Le forze dell’ordine del Regno Unito sono arrivate a Cox grazie ad una segnalazione della polizia canadese, una segnalazione resa possibile dal coordinamento internazionale operato attraverso la Virtual Global Taskforce ( VGT ). Una chatroom canadese, chiusa dalle forze dell’ordine negli scorsi anni, sembrava essere tornata operativa, dal Regno Unito.
La stessa scala gerarchica e lo stesso meccanismo di attribuzione della reputazione, guadagnata in base alla condivisione di contenuti, spesso prodotti “on demand”, ha rivelato a Canadian Press Paul Krawczyk, l’agente della polizia canadese che ha inoltrato la segnalazione. È così che, a seguito di indagini, si è proceduto all’arresto del ventisettenne, a settembre 2006: nove capi d’accusa, per il possesso e la distribuzione di immagini che raffiguravano abusi sui minori, quasi 76mila quelle individuate sul suo hard disk, almeno undicimila quelle che Cox ha distribuito.
“Sono fuori per un tè”, questo il messaggio che figurava accanto al nickname di Cox al momento dell’arresto, per giustificare la sua assenza. Assumendo la sua identità, le forze dell’ordine hanno potuto infiltrarsi nell’ambiente : sono bastati pochi giorni per raccogliere gli elementi necessari ai fini dell’operazione.
La chat sembrava però essere tornata operativa, nelle settimane successive. A gestirla, Gordon Mackintosh, un manager trentenne, che si è dichiarato “intossicato” dalla sua attività. Ha chiesto il patteggiamento e verrà giudicato il 29 giugno. Nel frattempo, gli agenti sono tornati a vigilare sulla chat, raccogliendo ulteriori indizi, che hanno condotto ad altri arresti e all’identificazione di altri sospetti.
Grazie ad un’azione coordinata, grazie alla collaborazione delle forze dell’ordine di numerosi paesi, sono 700 gli adulti identificati, 63 gli arrestati, riporta in una nota l’ Australian Federal Police . “Un brusco risveglio per coloro che pensano di poter proseguire in queste attività raccapriccianti senza incorrere in conseguenze”, così ha definito l’operazione Jim Gamble, capo del CEOP Centre inglese e della coalizione internazionale contro gli abusi sui minori.
Nel corso dell’operazione, ed è questo naturalmente il risultato più rilevante, spesso sconosciuto ad operazioni contro la diffusione del pedoporno in rete, 31 bambini sono stati identificati e sottratti ai propri aguzzini .
Gaia Bottà