Roma – Su L’Unione Sarda di due giorni fa è apparsa una notizia di grande rilievo. Il testo online dell’articolo è, purtroppo, disponibile per i soli abbonati, ma quanto riportato nella homepage pubblica è più che significativo:
“I giudici affermano che gli investigatori cercavano nel pc prove di cui dovevano già essere in possesso.
Il Tribunale sconfessa la Procura: a rischio l’inchiesta sui pedofili.
Annullato il sequestro del computer di un indagato, in arrivo altri appelli”.
La notizia dell’indagine sarda era già circolata ed anche da altre parti d’Italia erano giunte conferme dell’esistenza di procedimenti analoghi (non necessariamente appartenenti allo stesso, originario filone) riguardanti migliaia di persone.
In pratica, secondo la tesi dell’accusa, alcuni utenti avrebbero acquistato materiali pedopornografici (rendendosi, quanto meno, responsabili del reato di cui all’art. 600-quater c.p.) “spendendo” la propria carta di credito sulle pagine di un sito, appunto, di transazioni online al fine di ottenere l’accesso al sito pedopornografico.
Già di per sé la spendita della carta di credito per operazioni notoriamente illegali lascia qualche perplessità. Ma, al di là di ciò, la cronaca (perché il testo dell’ordinanza cagliaritana non è ancora noto) ci consegna una realtà sconcertante: è sufficiente effettuare una transazione con un operatore che fa da intermediario anche per conto di siti pedopornografici (appunto, però, non soltanto per detti siti illeciti) per finire nella lista degli indagati.
Con tre conseguenze non da poco: anzitutto un’accusa infamante che nessuno potrà mai ripagare; poi, il sequestro di strumenti che sono diventati quotidiani per tutti, anche per lavoro; infine, l’esborso di somme talvolta non trascurabili per godere di un’assistenza legale adeguata e che è realistico definire irrecuperabili, anche a fronte di un esito finale completamente favorevole.
Facciamo un passo indietro. Per disporre un sequestro probatorio (verosimilmente quello contestato con il riesame) occorrono fondamentalmente due presupposti:
– il fumus comissi delicti, cioè la riconducibilità dei fatti contestati ad uno schema giuridico astratto, nel nostro caso, il reato di cui all’art. 600-quater c.p. – Detenzione di materiale (pedo-)pornografico;
– il vincolo pertinenziale, vale a dire il rapporto con il reato, nel caso di specie, il computer come presunto “contenitore” di immagini illegali con esso scaricate.
Secondo il Tribunale per il Riesame di Cagliari, però, la semplice transazione, pur fatta su un sito “ambiguo”, cioè che ha rapporti con fornitori di materiali eterogenei, anche illegali, non è sufficiente per costituire il “fumus” di cui sopra, non costituisce, di per sé, elemento decisivo e tranquillizzante circa la commissione del reato contestato.
Soprattutto – ed è questo il nocciolo della questione -, il sequestro (pur tecnicamente “mezzo di ricerca della prova”) non può diventare un éscamotage per garantirsi l’ipotetico rinvenimento di prove se già gli inquirenti non dispongono di sufficienti elementi.
Il provvedimento cagliaritano risulta essere il primo reso in quell’indagine, ma è ragionevole ritenere che le impugnazioni presentate allo stesso Tribunale avranno esito identico. Meno scontato sarà l’orientamento delle altre sedi giudiziarie anche se chi scrive, pur non conoscendo i particolari della vicenda, ritiene che il Tribunale di Cagliari, per quanto trapelato attraverso la cronaca, abbia giustamente e coraggiosamente (a causa della tipologia del reato che può far emergere questioni di coscienza) riconosciuto i diritti dei singoli, magari, “tra le righe”, invitando gli inquirenti a compiere indagini più approfondite prima di accusare migliaia di persone.
avv. Daniele Minotti
Studio Minotti
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