Constatate le lacune del codice penale in relazione alle tecnologie telematiche , i giudici d’appello non hanno potuto far altro che sovvertire il giudizio precedentemente emesso e discolpare l’accusato dall’imputazione di pedopornografia . È successo nello stato della Pennsylvania, e a riportarlo è The Register : Anthony Diodoro, ventiseienne di Delaware County, aveva già ammesso di aver consapevolmente consultato online 370 immagini pornografiche coinvolgenti minori. Non solo: Diodoro aveva anche confessato di aver visitato i siti web con lo scopo esplicito di accedere a quelle immagini.
Il caso sembrava chiuso, ma i tre giudici della Corte Superiore del Commonwealth hanno stabilito altrimenti. La legge dello stato prevede infatti che debba sussistere il “possesso consapevole” di materiale pedopornografico per poterlo riconoscere come crimine. I giudici hanno altresì concluso che Diodoro non fosse pienamente consapevole di possedere quelle immagini , perché non esistevano prove certe del fatto che egli fosse a conoscenza del meccanismo di cache utilizzato dal browser per visitare i siti.
Insomma, Diodoro non ha scaricato quelle immagini sul desktop per consultarle e la presenza della semplice copia di quei contenuti nei file temporanei di IE (o di qualunque altro software usato per consultare il world wide web) non può essere sanzionata come un crimine secondo la legge della Pennsylvania: “A causa delle ambiguità del codice penale nei confronti della tecnologia informatica e telematica, siamo costretti ad interpretare le norme in maniera letterale ed in favore dell’imputato”, ha scritto a riguardo il giudice Richard Klein.
Klein sottolinea come un imputato debba avere una consapevolezza chiara del fatto che la sua è una condotta criminosa per dichiararsi colpevole, e in questo caso l’ambiguità della legge suggerisce che tale cognizione non sia stata provata con sufficiente evidenza. I tre giudici sono stati quindi costretti a ribaltare la decisione precedente, lasciando agli organi legislativi il compito di chiarire, nei termini di legge, se la semplice visione di contenuti pedopornografici senza il loro salvataggio su disco debba essere considerata un crimine o meno.
Tony Fagelman, della Internet Watch Foundation , ha espresso lo stupore dell’associazione sulla vicenda: secondo il Protection of Children Act inglese, la mera visione di questo genere di materiale su Internet, sia che l’utente sia a conoscenza del meccanismo di caching dei contenuti o meno, è classificata come un download, visto che il computer stampa quelle immagini a schermo, e quindi è considerata un reato . “La decisione è insolita”, ha dichiarato Fagelman, “perché in genere la legge degli USA segue gli stessi dettami seguiti qui da noi in Inghilterra”.
La IWF lavora attivamente per l’eliminazione dei contenuti ritraenti abusi sui minori dalla rete: recenti stime parlano di successo per l’operazione CleanFeed , che ha permesso la chiusura di oltre 30.000 siti inglesi a carattere pedopornografico. E Fagelman non ha tutti i torti a mostrarsi stupito: la sentenza della Pennsylvania sembra andare contro quella che è la volontà generale degli organi governativi e degli stessi Internet Service Provider americani: casi recenti parlano di centinaia di arresti nell’ambito della operazione Emissario , e dell’ istituzione di filtri sulla posta elettronica da parte dei grossi nomi della connettività di rete per individuare scambi di materiale pedopornografico.
In Italia le attività investigative tendono a concentrarsi sull’individuazione e lo smantellamento di reti di scambio di grosse dimensioni (vedi il recente caso dell’ operazione Los Linos ). Al pari della legislazione della Pennsylvania, la semplice presenza di contenuti a carattere pedo-pornografico nella cache del browser non costituisce una prova evidente di un reato , per via del funzionamento stesso del web: un sito del tutto legittimo potrebbe contenere link a materiale illecito, e la cache in certi casi può non essere sufficiente come prova per l’incriminazione.
Alfonso Maruccia