Alla fine delle scorse festività natalizie, un cinguettio su Twitter aveva accennato ad un bisogno disperato da parte di Jamendo. La comunità online – legata alla distribuzione legale di musica in Creative Commons – non era riuscita a trovare una seconda infusione di investimenti, attesi per la cifra di circa 1,5 milioni di euro . Jamendo aveva quindi bisogno di vendere o di fondersi per sopravvivere.
Cattive acque , per qualcuno agitate dalle stesse scelte strategiche di Jamendo. La startup lussemburghese si sarebbe posizionata su un terreno commerciale parecchio ostico, sì rigoglioso – dal 2000 sono state raggranellate circa 200mila canzoni – ma nella sostanza poco fruttuoso. Perché foriero di artisti non di primo piano, dall’appetibilità piuttosto bassa per un pubblico mainstream .
L’originario entusiasmo del CEO di Jamendo Laurent Kratz era sembrato un pallido ricordo. Quando veniva annunciato un modello di business basato sulla distribuzione gratuita di brani all’utente finale e una quantità sempre crescente di partnership e accordi di licenza. All’inizio dello scorso gennaio, il servizio di musica online cercava 1,5 milioni di euro per la ricapitalizzazione.
Alcune proposte avevano preso piede. Una di queste era stata portata avanti da Daniela Vivarelli, moderatore del forum italiano di Jamendo. Un’ associazione di artisti e utenti , da fondare presso un notaio del Lussemburgo, per racimolare l’intera quota attraverso un sistema di versamenti. In pratica, 20 euro a testa per un totale di 75mila membri, per costituire l’associazione e dare Jamendo ai jamendiani . Non a fondi d’investimento o finanziarie.
Una petizione online era stata annunciata, fornendo alla stessa comunità del servizio musicale lussemburghese uno strumento per far sentire la propria voce. Una petizione dal titolo Save Jamendo! che è attualmente giunta ad una cifra di poco inferiore alle mille firme . Sylvain Zimmer, tra i fondatori della piattaforma, era a quel punto direttamente intervenuto sulla questione, facendo luce su alcuni dettagli relativi alla crisi.
Non ci sarebbero state interruzioni al normale servizio, ma la ricerca di un partner sarebbe continuata. I vertici di Jamendo avevano in tasca i soldi necessari per gestire i server, ma non quelli per mantenere attivo uno staff di circa 20 persone. Le donazioni sarebbero state ben accette, ma non da annunciare in via ufficiale, come un modo per risollevare definitivamente le sorti di Jamendo.
Come spiegato alla fine di gennaio dalla stessa Daniela Vivarelli a Punto Informatico , doveva essere l’intera comunità orbitante intorno al sito a compattarsi, a serrare le fila. Ad esempio mantenendo i legami attraverso le principali piattaforme social come Facebook. “La comunità jamendiana è grande – spiegava Vivarelli – nel caso, un altro Jamendo lo si rifà”. Per il moderatore, la vera questione in ballo era un valore da preservare al di là delle sorti finanziarie. Il valore di una grande comunità in Creative Commons .
Poi, verso la fine di febbraio, un particolare messaggio è apparso sul forum di Jamendo, indirizzato a tutta la comunità da parte di Sylvain Zimmer. “Abbiamo trovato un partner in grado di garantire il futuro finanziario di Jamendo – si legge nel post – È stato difficile e abbiamo dovuto licenziare alcuni dipendenti. Presenteremo i nostri soci e la nuova squadra nel corso delle prossime settimane”.
E Zimmer ha riportato alla comunità una serie di annunci, in modo da iniziare in maniera programmatica il nuovo viaggio di Jamendo. Una piattaforma che non si baserà più sugli annunci pubblicitari (i cui ricavi venivano divisi 50/50 con gli artisti), perché poco remunerativi e molto pesanti per le performance della navigazione. Jamendo sembra dunque pensare soprattutto agli utenti.
Per esempio attraverso il Jamendo Community Group , nato dalle ceneri dell’iniziativa Save Jamendo! per fornire un ambiente aperto di discussione, per entrare in contatto diretto con i responsabili del sito. Si tratta quindi di una maggiore apertura per il servizio musicale lussemburghese, a base di API per gli sviluppatori e una più coraggiosa filosofia open source, a partire dalla possibilità di intervenire sulle formule di ranking e sul sistema di traduzione.
Ma i seri rischi corsi da Jamendo sembrano aver minacciato in qualche modo lo stesso futuro del modello economico e culturale legato alla musica in Creative Commons. Una crisi probabilmente frutto di un generale approccio approssimativo alle licenze libere, almeno secondo Davide D’Atri, CEO di Beatpick.com , piattaforma musicale online che gestisce i rapporti tra gli artisti e brand come Ralph Lauren, Toyota e 20th Century Fox.
Nel corso di un’intervista con Punto Informatico , D’Atri sottolinea come oggi il Creative Commons debba essere sfruttato più come uno strumento che come un vero e proprio modello di business . Quest’ultimo dovrebbe in sostanza possedere caratteri più simili agli approcci tradizionali. “Jamendo è stato per tre anni con la pubblicità – spiega il CEO di Beatpick – creando un enorme database di musica che non serve a molto”.
Il servizio musicale lussemburghese avrebbe in pratica peccato d’ambizione, volendo accettare chiunque sulla propria piattaforma. Con un risultato decisamente pericoloso, stando alle parole di D’Atri: cioé costi di gestione enormi e musica non sempre valida , difficile da piazzare in ambito commerciale. D’Atri ha inoltre parlato di una joint-venture annullata tra Beatpick e Jamendo, annunciando inoltre che il suo servizio andrà presto a fare concorrenza alla piattaforma di Zimmer in Francia. Tra i principali obiettivi di Beatpick c’è sicuramente quello di accompagnare gli artisti iscritti verso la notorietà in ambito commerciale. In particolare attraverso mezzi di diffusione come gli spot pubblicitari . “Per un musicista emergente è oggi certamente più difficile farsi notare – ha spiegato D’Atri – innanzitutto perché ci sono molti più tool in giro. Il nostro core business è la pubblicità televisiva, che offre la possibilità di farsi conoscere come nel famoso caso dei Tin Thing”.
L’approccio di Beatpick è dunque orientato al B2B, non avendo come target primario l’ascoltatore medio ma i vari professionisti del licensing . È volutamente scarso infatti il suo impegno nella costruzione di una social media strategy , dal momento che i rapporti commerciali vengono gestiti direttamente con le aziende. O con le grandi catene di supermercati.
D’Atri parla di un rapporto contrattualizzato a partire dal primo giorno del 2010 con il gruppo italiano Interdis , società impegnata nella grande distribuzione organizzata con quasi 3mila punti vendita in tutto il territorio nazionale. Per il CEO di Beatpick, questo significherà un risparmio di circa 800mila euro annui per la catena, che potrà quindi liberarsi dalle tariffe stilate da SIAE.
Soldi interessanti salvati dalle grandi catene di distribuzione, e conseguentemente soldi che andrebbero annualmente agli artisti del Creative Commons, visti da Beatpick come delle vere e proprie giovani startup. Per D’Atri, i guadagni attraverso la sua piattaforma potrebbero essere consistenti, in una fascia tra i 2mila e i 20mila euro . “Alcuni dei nostri artisti hanno guadagnato bene – ha spiegato – Certo, è possibile che non si venda per un po’ e poi di colpo arrivi un assegno di 3mila euro. Quanti dischi bisognerebbe vendere per guadagnare questa cifra?”.
Beatpick si rivolge quindi alle grandi catene di distribuzione, che a loro volta potrebbero risparmiare liquidità altrimenti da destinare alle collecting society come SIAE. “Noi consigliamo agli artisti di iscriversi ad Ascap o Bmi, che sono le uniche società che prevedono accordi non esclusivi – ha continuato D’Atri – E questo è in sostanza il nocciolo di tutto il problema: il mandato non esclusivo”.
Chi si iscrive ad Ascap, in pratica, può decidere quali transazioni debbano essere coperte da una collecting society e quali dal meccanismo del Creative Commons. Si tratta dunque di una gestione flessibile di un’altra gestione, quella dei diritti legati ai brani. Beatpick favorisce sia la distribuzione in CC per usi non di tipo commerciale che quella legata a spot pubblicitari e grandi catene. Un meccanismo ibrido tra apertura libera e sfruttamento delle royalty.
In genere, le cosiddette backend royalty vengono acquisite da un editore che aiuta gli artisti a pubblicare, fornendogli però un compenso che si aggira intorno al 20-30 per cento del totale . Questo per D’Atri è incorretto, dal momento che ad esempio uno spot pubblicitario già paga per lo sfruttamento commerciale alle società di collecting come SIAE. Beatpick non intende quindi prendere ulteriori percentuali, a meno che non sia lo stesso artista a richiedere un lavoro di controllo da parte della piattaforma. Controlli che, per D’Atri, sono peraltro molto difficili da portare avanti in maniera esaustiva.
Royalty, spot commerciali, supermercati, società di collecting più flessibili. Ma quale ruolo in definitiva per il Creative Commons? Per il CEO di Beatpick, le licenze libere aiutano un artista nel suo percorso iniziale, quando ha bisogno del livello massimo di diffusione. Quindi permettere ai suoi brani di distribuirsi a macchia d’olio in maniera aperta, magari attraverso gli stessi fan e i rispettivi blog o siti preferiti.
L’obiettivo di Beatpick consiste nell’incoraggiare le persone a condividere liberamente i contenuti dei suoi artisti iscritti, prima di applicare tuttavia criteri adeguati di distribuzione musicale. In pratica, a seconda degli usi che verranno fatti dei singoli brani. E c’è un altra piattaforma musicale online che vuole fare della sponsorizzazione la sua parola d’ordine, basandosi su un modello di business meno tradizionale. Il cui esito potrebbe aprire altre strade per il cammino futuro della musica in Creative Commons. Lanciato agli inizi di marzo in public beta , Buskerlabel è un servizio che mira a stabilire un contatto più stretto tra i vari artisti e una vasta platea di fan connessi. Artisti che tuttavia provengono in misura minore dal Belpaese, come spiegato a Punto Informatico dal fondatore e CEO Giulio De Luise. Contesti come quello tricolore, infatti, sarebbero contraddistinti da una certa diffidenza di fondo nei confronti dell’ecosistema Creative Commons.
I vari musicisti sarebbero dunque preoccupati per questioni legate alla tutela dei propri diritti d’autore, spinti in modo particolare dal meccanismo di collecting suggerito da SIAE. Ecco perché, ha spiegato De Luise, Buskerlabel ha raccolto un gran numero di artisti provenienti da zone diverse dell’Europa, come ad esempio quelle dell’est.
Allo stato attuale, Buskerlabel non ha messo in campo grandi strategie di marketing, cercando di perfezionare un nuovo modello per la remunerazione degli artisti. L’idea di fondo consiste nel guardare alla Rete come un bene comune, lavorando in particolare sul concetto di sponsorizzazione da parte dei netizen più appassionati . Una sorta di modello basato sulle donazioni, per spingere verso un’ottica di fair use contro quello che lo stesso De Luise definisce “sciacallaggio delle etichette”.
Una delle ambiziose sfide di Buskerlabel è quella di raggiungere una quota di cento nuovi album in CC ogni mese. Album da supportare con il meccanismo del contributo volontario, anche perché – spiega De Luise – in paesi come il Regno Unito è abbastanza normale pagare l’equivalente di 5-10 euro per un disco. E la moneta lanciata dalla piattaforma si chiama koin , un gettone del valore di 1 euro per supportare un artista e diventarne un vero fan.
Su Buskerlabel un vero fan si trasforma in un piccolo mecenate social , colui il quale aiuta gli artisti a farsi conoscere attraverso il passaparola online. Dopo aver donato un tot in euro, il vero fan ha la possibilità di ascoltare tutto un disco in anteprima e in formato ad alta qualità (wav, flac). Al contrario degli altri utenti che potranno ascoltare le canzoni soltanto dopo la loro pubblicazione ufficiale e in formati compressi come mp3 e ogg.
Tra gli obiettivi della piattaforma di De Luise infatti c’è quello di traghettare gli artisti verso una certa notorietà, in particolare fino alla pubblicazione dei propri album. Buskerlabel sfrutta proprio l’ondata condivisa di sponsorizzazioni e passaparola per accompagnare e sostenere i musicisti, che hanno l’ultima parola sul periodo che deve passare tra il caricamento dei brani online e la data ultima di pubblicazione .
In pratica, un miscuglio tra un social network per artisti e fan e una net label , che ricompensa i creatori di musica con l’ 80 per cento delle koin raccolte via PayPal . Ma c’è un obbligato interrogativo: perché non attendere che l’album venga pubblicato per poi ascoltarlo in maniera del tutto gratuita? D’altronde si tratterebbe di aspettare per un disco jazz fatto in casa e non per l’ultimo lavoro di band di fama planetaria come gli U2.
De Luise ammette che un rischio del genere è sufficientemente concreto, allo stesso tempo è convinto che l’alta qualità dell’ascolto possa pagare bene. Quelli che attenderanno saranno infatti esclusi dai formati tipo flac e wav. Ma per il CEO di Buskerlabel si tratterebbe anche di perdere l’opportunità di apparire come veri fan di un artista, diventando di fatto come dei mecenati della musica in Rete . Come dei netizen di garanzia, insomma.
Basteranno i veri fan a costruire un solido modello di business sui campi aperti della creatività libera? Probabilmente ci vorrà anche un piccolo aiuto dagli amici della pubblicità. Come spiegato dallo stesso De Luise, su Buskerlabel ci sarà l’implementazione di un modello di advertising in linea con la filosofia di fondo della label social . Anche gli inserzionisti potranno diventare dei mecenati , con doti pecuniarie più ricche.
Un corposo ritorno d’immagine, almeno stando alle dichiarazioni metaforiche di De Luise. Si tratterebbe di un impegno molto simile a quello di Lorenzo il Magnifico – ha spiegato il CEO di Buskerlabel – che alimentava le arti sia per passione che per avere un ritorno d’immagine, insomma per esserci. Fondi intelligenti e passione da antichi mecenati potrebbero così far funzionare tutto il sistema. Almeno secondo i nuovi magnifici del Creative Commons.
Mauro Vecchio