Si terrà oggi a Bergamo l’udienza del Tribunale del Riesame sui provvedimenti intrapresi contro The Pirate Bay lo scorso agosto , provvedimenti che parlano di violazione del diritto d’autore, che hanno suscitato vivacissime polemiche e ai quali la Baia ha già risposto in vari modi, non ultima l’attivazione del dominio alternativo labaia.org esplicitamente riservato agli utenti italiani. Con Peter Sunde , uno dei tre admin della Baia dei Pirati, il giornalista newyorkese Luca Neri ha raccolto una intervista proprio su quello che è stato già definito il caso italiano , prima che Sunde annunciasse il silenzio stampa . Neri sta completando un libro su P2P, copyright e pirateria digitale che sarà in libreria ad ottobre (Cooper Editore) e Punto Informatico pubblica qui di seguito ampi stralci di quell’intervista.
Luca Neri: Qual è stata la tua reazione emotiva a tutto questo pasticcio?
Peter Sunde: Beh, la chiamerei un’esperienza “interessante”, e non lo dico in senso positivo… Per me non sarebbe stato un problema se fossi stato rinviato a giudizio, in un vero processo, con il diritto di difendermi, invece di essere vittima come cittadino straniero di una decisione unilaterale. Mi sembra un provvedimento ingiusto, che va contro tutti i precedenti dell’Unione Europea, perché The Pirate Bay non è una società, e non è previsto che si possa far causa a degli individui che vivono all’estero, che non hanno alcuna attività nel vostro paese, dove anzi non hanno mai messo piede. Ancora peggio: il provvedimento è pieno di imprecisioni, scopiazzate malamente da vecchi articoli apparsi sui mass media, ispirati a loro volta dai nostri nemici. Il risultato è abbastanza inquietante.
LN: Avete ricevuto delle comunicazioni ufficiali in merito a questo caso?
PS: No, non abbiamo ricevuto nessuna notifica dal tribunale. Abbiamo appreso che un giudice aveva emesso un provvedimento contro The Pirate Bay solo grazie agli amici che abbiamo in Italia, un’altra cosa parecchio bizzarra, perché non siamo assolutamente gente che si nasconde e rintracciarci non è affatto difficile.
LN: Per quello che puoi vedere dai server di The Pirate Bay, ti sembra che il blocco dell’utenza italiana funzioni? È vero che il traffico è addirittura aumentato?
PS: Sì, ci sono tuttora molti italiani che continuano a connettersi con il nostro sito. C’è chi riesce a far questo usando DNS diversi da quelli dei loro provider, e lo possiamo vedere facilmente, e altri che usano dei “proxy”, un sistema che per definizione rende molto più difficile capire da che nazione arrivano. In generale abbiamo registrato comunque un aumento, anche se modesto, un paio di punti percentuali. Questo è significativo perchè in passato non siamo mai stati molto popolari in Italia.
LN: Perché pensi allora che la magistratura italiana vi abbia preso di mira?
PS: Mi sembra evidente, dai comunicati stampa della IFPI (International Federation of Phonographic Industries) e altre organizzazioni simili, che le multinazionali del copyright stiano cercando di usare l’Italia come un esempio per le altre nazioni, mostrando che siccome l’Italia ha deciso che The Pirate Bay è illegale anche loro ne dovrebbero bloccare l’accesso. Stanno cercando di far questo in un paese dove non abbiamo molti utenti, dove non abbiamo mai ricevuto molta attenzione, e senza nemmeno mettersi in contatto con noi.
LN: Nell’ordine di oscuramento del tribunale si cita uno studio della IFPI secondo il quale The Pirate Bay genererebbe alti profitti per i suoi gestori. Conoscete questo studio?
PS: No, non lo abbiamo mai visto. Non mi risulta che sia mai stato reso pubblico.
LN: Puoi rispondere a queste accuse, anche senza conoscerne i dettagli?
PS: Posso solo dire che devono essere basate su delle stime, senza alcuna conoscenza reale delle finanze di The Pirate Bay, visto che fra l’altro nessuno ci ha mai chiesto informazioni a proposito. C’è chi insiste che noi dovremmo guadagnare una certa quantità di soldi, in base a quello che guadagnano altri siti con un volume di traffico simile. Ma non è vero, perché noi non possiamo lavorare con lo stesso tipo di inserzionisti pubblicitari, con grandi aziende di alcun tipo, perché il nostro sito è un progetto politico scomodo, e diciamo apertamente come la pensiamo. Abbiamo inoltre delle spese molto alte, perché consumiamo una grande quantità di banda di trasmissione, e nessuno sembra metterlo in conto. Il nostro obiettivo non è mai stato quello di far soldi. Nessuna persona con un po’ di cervello avrebbe mai lanciato un sito che ha scatenato una causa da quasi un miliardo di corone svedesi (100 milioni di euro) pensando di lucrarci sopra. Non sarebbe una cosa furba. Non è un ipotesi minimamente plausibile.
LN: The Pirate Bay è uno dei 100 siti più trafficati del mondo. Anche se i banner pubblicitari ospitati sulle vostre pagine sono della peggior qualità, qualcosa renderanno, o no?
PS: Nei documenti messi assieme dal governo svedese, nel corso della causa intentata contro di noi, si afferma che saremmo riusciti ad incassare circa un milione e 200 mila corone (120.000 euro) nel corso di tre anni. Quella cifra non è nemmeno corretta, perché hanno contato alcuni dei nostri introiti due volte, ma è pur sempre tutto quello che sono riusciti a calcolare. La mia stima è invece attorno ai 90.000 euro nel triennio, che vuol dire circa 30.000 euro all’anno, soldi che abbiamo speso per acquistare server, pagare l’hosting, la banda di trasmissione, e che in realtà è molto meno di quello che tutta quella roba costa sul mercato. La verità è che The Pirate Bay riesce a sopravvivere solo perchè ci dedichiamo risorse personali, perché riceviamo donazioni dagli utenti, e perché otteniamo sconti da fornitori che ci conoscono e ci vogliono aiutare. È molto difficile per noi render conto di fondi che non ci sono.
LN: Negli Stati Uniti la strategia delle multinazionali del copyright, per cercare di arginare il dilagare della pirateria personale, è stata quella di fare causa a decine di migliaia di utenti. In Europa questa politica si scontra con una tradizione legale che offre una protezione maggiore alla privacy dei consumatori. Di conseguenza si punta a far pressione sui provider di connettività affinché assumano un ruolo attivo nella lotta alla violazione del copyright. Le vostre difficoltà giudiziarie in Italia si possono inquadrare in questo scontro industriale?
PS: Sì, assolutamente. Il punto qui non è veramente bloccare The Pirate Bay in Italia, dove non siamo un bersaglio di alto profilo. È chiaro invece che le organizzazioni che rappresentano gli interessi delle multinazionali del copyright collaborano a livello internazionale. Per la IFPI sarebbe estremamente importante poter vantare l’Italia come una piuma nel cappello, così come stanno cercando di fare in Danimarca, per creare un precedente a livello europeo.
Mi pare anche necessario sottolineare che The Pirate Bay non è mai stata condannata in un processo, ma che tutti questi tentativi di attaccarci addosso una reputazione illegale hanno fatto leva su degli strumenti di oscuramento preventivo, avvallati da corti di primo grado che hanno potuto valutare solo le tesi dei nostri oppositori. Più in generale, l’obiettivo non è nemmeno quello di mettere fuori gioco The Pirate Bay, ma di ottenere invece il diritto di spaventare la gente che vuole la libertà di condividere contenuti online con il file sharing. Per le multinazionali del copyright The Pirate Bay è solo particolarmente irritante, perché non abbiamo paura di dire apertamente che loro hanno perso il controllo della distribuzione della cultura, che il loro monopolio è finito, e loro non vogliono che la gente lo capisca.
LN: Insomma, vi prenderebbero di mira perché avete fatto del copyright una questione politica?
PS: Esattamente, che è poi la ragione per cui non si accaniscono nello stesso modo contro altri siti o altri sistemi di scambio peer-to-peer. In Danimarca, ad esempio, IFPI ha fatto causa ad un piccolo provider di connettività, Tele2/DMT2, perché, secondo una logica particolamente contorta, permetteva ai suoi clienti di accedere a The Pirate Bay, consentendogli quindi di iniziare il download di file potenzialmente protetti dal copyright, cosa che a sua volta avrebbe fatto circolare materiali protetti attraverso il network del provider, rendendo quindi il provider stesso colpevole di violazione del copyright. La cosa interessante è che Tele2 è uno degli ISP più piccoli della Danimarca, con meno dell’uno per cento del mercato. È quindi evidente che per la IFPI non era veramente importante impedire ai clienti di Tele2 di accedere a The Pirate Bay, quanto invece prendere di mira una società con poche risorse per combattere un’ingiunzione di oscuramento, con l’obiettivo di ottenere un verdetto contro di noi, senza darci la possibilità di difenderci, perché non siamo parte in causa in quel procedimento, visto che non abbiamo un domicilio o alcuna attività in Danimarca, esattamente come in Italia.
LN: E in quel caso che reazioni ci sono state?
PS: Tutti gli Internet Service Provider della Danimarca, assieme alla Camera di Commercio, si sono coalizzati per fare appello contro la decisione, che reputano un precedente molto pericoloso per la libera concorrenza di mercato. Anche questo mi pare significativo, perché noi ci consideriamo proprio l’alternativa libera e gratuita al monopolio distributivo rappresentato da lobby come la FIMI (Federazione Industria Musicale Italiana) e la IFPI. Gli unici altri paesi al mondo che hanno scelto di bloccare l’accesso a The Pirate Bay sono il Kuwait, la Turchia e la Cina, una lista che mi pare si commenti da sola.
LN: Non credi che aver scelto di chiamarvi “pirati” vi possa danneggiare in termini di pubbliche relazioni? Negli atti del tribunale di Bergamo questo è uno degli elementi menzionati proprio per giustificare l’ordine di sequestro preventivo…
PS: Beh, seguendo questa logica immagino che potremmo essere denunciati anche come una minaccia per chi naviga i mari che circondano l’Italia! The Pirate Bay non ha nulla a che fare con la violazione del copyright, così come non ha nulla a che fare con l’arrembaggio delle navi. Noi abbiamo scelto di chiamarci pirati perché vogliamo riappropriarci di un termine che le major del copyright hanno distorto per criminalizzare chi crede in un nuovo modello di distribuzione della cultura. Ma una parola è una parola. Dire che siamo colpevoli per via di quel nome è stupido come dire che qualcuno va messo in galera perché di cognome si chiama Malandrino.
a cura di Luca Neri