Roma – Il proibizionismo non sembra pagare: le darknet del file sharing cominciano a divenire pane quotidiano dell’utente-condivisore medio , che può fruirne senza dover ricorrere a particolari complessità tecniche o conoscenze specialistiche del medium informatico standard.
La rivoluzione delle darknet , reti private impermeabili al controllo di terzi e di investigatori al soldo dell’industria, comincia probabilmente da LimeWire , il popolarissimo client P2P che con l’ultima versione disponibile, la 5.1.1, introduce il concetto di scambio privato tra “amici”, o comunque tra utenti che si conoscono e che sono disposti a instaurare una connessione privata da cui nulla fuoriesce sul network pubblico, men che meno gli indirizzi IP di cui RIAA e sodali vanno così ghiotti per le loro pratiche di contrasto allo scambio di contenuti online.
LimeWire, che già si trova al centro di una contesa legale con l’industria multimediale, ha deciso di non sottostare alla volontà di quest’ultima di trasformare la difesa degli interessi di parte in una pratica da accollare agli ISP . Per nulla spaventata dalla possibilità di fare la fine di Grokster e Morpheus gioca le sue carte in ambito di privacy enhancing technologies (PET) e protezione della condivisione libera da sguardi indiscreti.
Tra le controindicazioni della funzionalità “darknet” del nuovo LimeWire c’è il fatto che, essendo una modalità di scambio da pari a pari di tipo esclusivista, non è possibile accedervi se non conoscendo anticipatamente gli utenti con cui instaurare la condivisione . In caso contrario, è lapalissiano ma utile sottolinearlo, si passa alla pura e semplice modalità “pubblica” di accesso e download sul venerando network di Gnutella (2).
Come giustamente evidenzia Ars Technica , però, a parte questo una darknet così a buon mercato e a prova di newbie, accessibile e utilizzabile senza alcuna necessità di installare software e componenti terzi, ha tutte le potenzialità per essere uno strumento dirompente in mano a studenti di college e gruppi di downloader già abituati a condividere in una cerchia moderatamente ristretta i contenuti, qualsiasi essi siano.
La discussione rimane aperta su quanto una modalità di condivisione elitaria possa penetrare nelle abitudini di milioni di utenti. Quel che è certo è che l’operato dei cosiddetti “investigatori” delle major, abituati a scaricare un client di P2P per poi cercare un file e connettersi a una goccia di pochi, sfortunati condivisori malauguratamente selezionati in un oceano di bit senza confini, sia risultato poco efficace sino a ora e rischi di esserlo ancor di più in un futuro non troppo lontano.
Alfonso Maruccia